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La “Nuova Fisica” di Ettore Majorana

Grande fu la sorpresa di Ettore Majorana quando si accorse che per ottenere risultati straordinari non era affatto necessaria la comprensione totale delle leggi che governano il nostro universo. Al contrario, sarebbe stato sufficiente generare e poi ingrandire una bolla di universo vergine in cui leggi fisiche nuove e a discrezione dell’operatore si potessero scrivere da zero così come si scrive un programma su un supporto informatico. A questa idea è ispirato il Dito di Dio, o Rematon, la “famosa” macchina messa insieme dall’allievo di Majorana, Rolando Pelizza, con cui fu possibile annichilire la materia, convertire lo spin nucleare in calore, trasmutare la materia e… ringiovanire gli organismi viventi.


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majorana e pelizza


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PedMin

Dentro la Mente

È un fenomeno misconosciuto. Eppure, dovrebbe esserne consapevole chiunque soffra di un disturbo mentale, grande o piccolo che sia. In generale, risulterà utile a chiunque provi ancora emozioni.


Prima parte: un estratto dal testo “I Paradossi della Psicopatologia”
di Francesco Mancini e Amelia Gangemi, Raffaello Cortina 2024, pp. 285-288.


Il livello di un investimento è dovuto al grado di motivazione che lo sottende e dalla differenza con altre motivazioni concorrenti. La motivazione risulta dall’interazione fra scopi e rappresentazioni fattuali.

Gli scopi, nel caso dei disturbi mentali, sono abitualmente sia utilitaristici sia prescrittivi. L’investimento è attivato e mantenuto da emozioni negative che segnalano il riconoscimento di una differenza fra la rappresentazione di un determinato assetto della realtà (ordine fattuale) e la rappresentazione di cosa si desidera (ordine utilitaristico) da una parte, e, dall’altra, come si assume che debba essere (ordine etico o mondo giusto).

Se la motivazione è maggiore di altre presenti in quel momento, allora si attiva un investimento. L’investimento recluta le risorse disponibili orientandole in modo funzionale alla sua realizzazione, e in particolare orienta i processi cognitivi in accordo con il PedMin[1]. Il PedMin implica la focalizzazione di quegli aspetti che, se erroneamente trascurati, potrebbero avere conseguenze gravi per l’investimento in corso, e il defocalizzare aspetti che, se presi in considerazione, potrebbero distogliere erroneamente risorse da esso.

La focalizzazione coinvolge tutti i processi cognitivi, cioè l’elaborazione delle informazioni effettuata dal cervello e sottostante alla percezione, alla memoria e all’apprendimento, e a inferenze di livello superiore come il ragionamento, la pianificazione e il processo decisionale.

Ciò rende più probabili tre effetti. In primo luogo, l’investimento è attivato più spesso. Per esempio, se l’investimento è orientato a prevenire l’abbandono da parte di una persona amata, l’attenzione selettiva rileva facilmente segnali di un possibile allontanamento affettivo, attivando più spesso condotte preventive. In secondo luogo, la focalizzazione sui segnali negativi implica una maggiore disponibilità di informazioni che sono utilizzate in senso confirmatorio dell’evento temuto, cioè dell’abbandono. In terzo luogo, vi è una tendenziale maggiore disattivazione e disconferma delle rappresentazioni che sostengono investimenti concorrenziali. Per esempio, i segnali affettivamente rassicuranti sono trascurati o svalutati, e dunque si investe di meno nella costruzione del rapporto. Al contempo, investimenti alternativi, come lo studio, sono automaticamente disattivati o messi in disparte, con il risultato che l’importanza di prevenire l’abbandono aumenta relativamente ad altri investimenti.

L’entità dell’effetto dipende dal valore dell’investimento in corso, o meglio dal rapporto tra questo e altri investimenti attivi contemporaneamente. Più è elevato il valore dell’investimento, maggiore è il costo associato alla rinuncia alle rappresentazioni che lo sostengono e all’adozione di rappresentazioni opposte. Di conseguenza, aumenta la probabilità di attivare processi cognitivi che contribuiscono a mantenere e amplificare l’investimento stesso, anche quando la persona possiede le informazioni e le capacità cognitive necessarie per giustificarne il cambiamento. Questo accade anche se, rispetto all’insieme dei suoi obiettivi, la persistenza dell’investimento si rivela infruttuosa mentre il cambiamento sarebbe vantaggioso.

In breve, maggiore è l’investimento, maggiore è l’“effetto cannocchiale”: si vede solo ciò che è rilevante rispetto all’investimento e lo si vede ingrandito, sia in termini di credibilità sia di valore, mentre si trascurano possibilità alternative. Ciò rafforza l’investimento e ne ostacola il cambiamento.

La nostra tesi procede suggerendo cinque punti che sostengono la necessità dell’accettazione per la soluzione del paradosso nevrotico:

  1. Nei domini critici del paziente, gli scopi prescrittivi sono sistematicamente coinvolti e, pertanto, entrano nel determinare la motivazione all’investimento;
  2. Gli scopi prescrittivi moltiplicano il valore utilitaristico degli eventi e possono dare valore anche agli eventi privi di valore utilitaristico, come sembra accadere se l’investimento è motivato solo dal senso del dovere;
  3. Il cambiamento opportuno è verso la riduzione dell’investimento, che consente un orientamento cognitivo meno focalizzato e che dunque riduce i tre effetti di cui sopra;
  4. Un cambiamento, dato il primo punto, se non avviene con accettazione, avviene con rassegnazione o con depressione;
  5. Per quanto si possa aiutare il paziente a ridurre l’investimento modificando in positivo le sue rappresentazioni di minaccia o perdita/ fallimento, comunque resta sempre una quota di minaccia o perdita/ fallimento che è impossibile eliminare.

Per mostrare il ruolo dell’accettazione nel modificare gli investimenti e di conseguenza l’orientamento dei processi cognitivi, può essere utile un aneddoto clinico.

L’aneddoto è interessante per il nesso temporale, e plausibilmente causale, tra un evento che ha implicato un cambiamento delle priorità, soprattutto prescrittive, della paziente, e il cambiamento della valutazione del rischio di contaminazione.

La paziente Maria era affetta da un disturbo ossessivo da contaminazione, in particolare temeva il contagio del cancro. A vedere bene, in realtà, il suo vero timore non era tanto il contagio in sé, quanto di essere lei colpevole, per sbadataggine e superficialità, di esporsi al rischio del contagio. Nessuna informazione correttiva riusciva a superare il suo orientamento iperprudenziale. Tutto si infrangeva sulla sua richiesta “Ma come posso essere sicura che le informazioni mediche siano giuste? E se poi un domani si scopre che il cancro effettivamente è contagioso? Se dessi retta a queste informazioni e poi mi succedesse qualcosa, sarebbe colpa mia”. Da qui un massiccio e oneroso impegno preventivo, che di fatto assorbiva tutto il suo tempo a discapito di altri investimenti che sarebbero stati certamente più funzionali alla sua realizzazione esistenziale. Un giorno, purtroppo, fu diagnosticato un tumore metastatico al marito. È interessante osservare che da allora cessò di considerare il cancro contagioso. Il dovere di evitare la sottovalutazione dell’ipotesi che il cancro fosse contagioso era stato sopravanzato dal dovere di stare accanto al marito, oltre che dall’affetto per lui. In altre parole, il cambiamento della motivazione aveva implicato un diverso orientamento cognitivo, per cui aveva potuto prendere in considerazione le informazioni mediche sulla contagiosità del cancro.

Un secondo aneddoto può essere utile.

Guido soffriva di attacchi di panico. Per Guido le sensazioni legate all’ansia erano il prodromo della perdita del controllo e di un irreparabile impazzimento che considerava un rischio gravissimo e assolutamente inaccettabile. Si può quindi comprendere il suo stato d’animo quando seppe di dover subire un intervento chirurgico che necessitava solo di una anestesia parziale ma che era urgente, altrimenti la sua salute sarebbe stata certamente compromessa in modo grave. Il suo terrore era che avrebbe provato una forte ansia al momento di entrare in sala operatoria e in particolare all’avvicinarsi dell’anestesia, a quel punto avrebbe avuto un attacco di panico al quale sarebbe quasi certamente seguita la catastrofe temuta: la perdita del controllo e l’impazzimento definitivo. Guido era di fronte a un bivio: sottoporsi all’intervento chirurgico e accettare l’attacco di panico e i rischi per lui connessi o rinunciare all’intervento e accettare un grave danno alla salute fisica. Optò per la prima possibilità. Premesso che non fece uso di farmaci, è interessante osservare che non ebbe alcun attacco di panico. Si può interpretare questo risultato come la conseguenza di aver messo in conto l’attacco di panico e accettato il rischio della perdita del controllo. L’accettazione implicò la riduzione dell’orientamento preventivo dei processi cognitivi, facilitando così la sdrammatizzazione della minaccia ed evitando l’innesco della spirale che avrebbe potuto portare al panico.

L’importanza terapeutica dell’accettazione è testimoniata dall’efficacia di alcune tecniche.

L’esposizione con prevenzione della risposta (ERP) è una tecnica di nota efficacia soprattutto per i disturbi d’ansia e il disturbo ossessivo compulsivo. È ragionevole interpretare l’ERP come un insieme strutturato di esercizi pratici di accettazione di livelli di rischio progressivamente crescenti i cui risultati non sono soltanto comportamentali ed emotivi, ma anche cognitivi, contribuendo a ridurre anche la rappresentazione della minaccia.

Interventi di mindfulness e di ACT sono di efficacia dimostrata per diversi disturbi d’ansia e dell’umore, e il loro razionale consiste nel facilitare l’accettazione di minacce, perdite, fallimenti o rinunce almeno quel tanto che consenta di ridurre l’“effetto cannocchiale” e aprire la porta a un cambiamento.

Merita osservare che l’ACT e gli interventi basati sulla mindfulness considerano l’accettazione un processo che consiste nel permettere alle esperienze interne (pensieri, emozioni, sensazioni fisiche) di essere presenti senza tentare di cambiarle o evitarle. Nella prospettiva assunta in questo articolo, è opportuno distinguere il processo che porta all’accettazione, che certamente è facilitato dalle tecniche ACT e dalla mindfulness, dal risultato del processo che a nostro avviso consiste nell’adeguamento della propria rappresentazione di come deve essere la realtà alla rappresentazione di come essa è.


Seconda parte: un commento.


È piuttosto ovvio che una situazione temuta smetta di essere tale nel momento in cui riusciamo ad immaginarci vivi e in splendida forma nonostante la sua realizzazione. Dacché, con il timore verrebbe meno anche l’investimento atto ad evitarla.

Esistono però situazioni che per quanto immaginarie o improbabili sono in primis tanto terribili da non potersi accettare drasticamente, salvo ovviamente realizzarle, e in secundis non consentono facilmente di individuare stadi intermedi di realtà su cui modulare un’accettazione di livelli di rischio progressivamente crescenti.

In quel caso sono due i fattori su cui possiamo far presa. Il primo è l’amor fati di concezione stoica, non dissimile dalla provvidenza cristiana. L’idea che tutto si svolga secondo un ordine il cui fine supremo è il bene, l’utilità e lo sviluppo dell’intero universo. Ogni evento che accade, per quanto doloroso e frustrante possa essere, non avviene per caso, ma è funzionale a un bene supremo di cui anche lui è partecipe. Da ciò deriva l’opportunità di dare il proprio assenso, abbracciare e amare il proprio destino, qualunque esso sia, perché comunque è giusto e buono.

Purtroppo l’amor fati non si insegna. Ciò che si può fare è tentare. Lasciare andare. Abbandonarsi al flusso. Con successivi atti di fede si sviluppa l’istinto dell’anima, in cui si distinguono le azioni in armonia con il proprio destino, intendendo la ragione per cui siamo su questo piano, e le ragioni in disarmonia, che se perseguite ci costringerebbero a reiterare spiacevoli lezioni. Più ci si fida ad abbandonare il controllo, più la buona sorte di assiste; più la buona sorte ci assiste e più siamo disposti ad abbandonare altro controllo. Il primo passo è il più difficile, tanto che alcuni muoiono senza mai avanzarlo.

Il secondo fattore è la consapevolezza del PedMin. Una volta consapevoli che i nostri processi cognitivi sono distorti, saremmo disposti ad abbandonarli temporaneamente. Quando il nostro modo di agire ci procura sofferenza, dobbiamo imparare a registrare nel dettaglio le emozioni che ne sono coinvolte, da quelle che lo innescano a quelle che ne sono attivate. In questo modo costruiamo una “carta d’identità” del comportamento patologico. Quando esso si presenta, possiamo allora riconoscerlo e imporci di non ragionarci. Soprattutto, non dobbiamo raccogliere e analizzare informazioni al fine di dimostrarci che la situazione temuta non si realizzerà. Tale strategia è fallimentare in quanto il PedMin volgerà quel materiale contro di noi. In primis, setacciando con cura scoveremo sempre quell’improbabile combinazione di eventi che conduce alla catastrofe (non importa se la probabilità è di una parte su miliardo di miliardi, il PedMin la farà comunque risaltare contro lo sfondo delle molto più probabili combinazioni innocue). In secundis, un’informazione è comunque un mattoncino per mezzo del quale un cervello debilitato può costruire la sua logica personale. Non importa quanto sia fallace, al paziente nevrotico apparirà altrettanto valida della logica ordinaria, anche in violazione delle leggi fisiche. Riconoscere il comportamento patologico dalla sua carta d’identità servirà da monito per sospendere l’analisi. Seppur su basi diverse, anche questo è un lasciare andare. Più siamo pronti e veloci nel metterlo in atto, più cesseranno gli effetti del PedMin sui processi cognitivi.

Un’altra forma di accettazione si ha quando la situazione ideale è talmente lontana dalla realtà e talmente difficile da raggiungere, che il soggetto rinuncia a combattere. Accorgersi che l’ideale è irraggiungibile consente di mettersi il cuore in pace e di far cessare l’investimento. Il problema però è che non tutti sono capaci di misurare la distanza tra ideale e reale.

La stessa difficoltà impedisce di stabilire quando si è raggiunta una condizione di sicurezza. In questo caso l’investimento dovrebbe cessare in quanto il reale è venuto a coincidere con l’ideale. Spesso però il soggetto non sa dire se si trova all’interno o all’esterno di quegli intervalli che definiscono la condizione ideale.

La difficoltà nel collocarsi o nel misurare la distanza discende a sua volta dalla difficoltà di percepire i confini. Di conseguenza, il soggetto reagisce cercando di collocarsi agli estremi.

Detta con un esempio, se non so stabilire quando il grigio chiaro diventa scuro o viceversa, mi sentirò al sicuro solo nel bianco o nel nero. Solo gli estremi sono, oltre ogni dubbio, chiaro o scuro.

Geograficamente potremmo pensare a Francia e Germania. Il confine è ben tracciato, ma se io non lo vedo, dirò di essere sicuramente in Francia solo trovandomi a Limoges, centro geografico della nazione francese. Parimenti, dirò di essere sicuramente in Germania solo trovandomi a Magdeburgo, centro geografico della nazione tedesco. Muovendo a nordest, anche di poco, da Limoges, avrò sempre il dubbio di essere sconfinato in Germania. Muovendovi a sudovest, anche di poco, da Magdeburgo, avrò sempre il dubbio di essere sconfinato in Francia.

L’incapacità di percepire i confini può discendere dalla mancanza di una “base sicura” per l’esplorazione del mondo in quella fase dell’infanzia che John Bolwby definisce “attaccamento”. La “base sicura” è in parole povere quel genitore che ci segue con discrezione, il cui amore incondizionato ci assicura di poter sempre tornare indietro se sbagliamo strada, e che proprio per questo ci incoraggia ad esplorare, perché la sua accoglienza non è vincolata alle nostre scelte. È il genitore che incoraggia e non condanna, che consola ma non ripara i nostri guai, affinché impariamo dagli errori.

Commentiamo infine l’effetto delle meta-emozioni. Nei soggetti patologici è solitamente imperante il senso di colpa. Nasce solitamente in tenera età per le violenze (non necessariamente fisiche) subite dai genitori. Il bambino non concepisce che il genitore sia in errore, perciò se viene punito egli conclude inevitabilmente di essere colpevole.

Quando il soggetto nevrotico riesce per la prima volta a lasciare andare e prova quel meraviglioso stato di libertà in cui ogni visione diventa possibile, nel giro di pochi secondi si sentirà in colpa per aver abbassato la guardia. Quindi non solo teme una certa situazione ed orienta le sue energie per evitarla, ma interpreta inoltre la sua eventuale realizzazione come una colpa personale. La colpa di non aver fatto nulla per impedirla. Il giudizio etico negativo verso quei comportamenti che ne favorirebbero la guarigione, non fa che radicare e prolungare la patologia. In questo caso “basta” accettare che i genitori sono persone come tutte le altre, che le persone sbagliano, e che comunque possiamo amarle lo stesso, perché gli errori che facciamo, anche le scelte più feroci, sono in fondo determinate dalla nostra storia passata. Ciò non giustifica, ma consente di capire e appunto di accettare.


Terza parte: il PedMin e i cinque sensi.


Quando soffrivo di disturbo ossessivo-compulsivo, uno dei problemi maggiori era la perdita di fiducia nei sensi. Quando le acquisizioni dei sensi contraddicono l’ossessione e si mettono in condizione di estinguerla, interviene un meccanismo chiamato PedMin che provvede a smorzare il segnale dei sensi e ad amplificare il segnale opposto che viene dall’immaginazione e che va a conferma dell’ossessione. Il risultato è la sovrapposizione di due segnali opposti e l’incapacità di distinguere il vero dal falso. Accade quando vi è un profondo investimento emotivo su una condizione di cui il soggetto non è disposto ad accettare la realizzazione (più o meno consciamente). L’ossessione focalizza i presunti segnali di rischio e defocalizza le conferme di sicurezza.


[1] Primary Error Detection & Minimization.


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Dossier Grecia e Atlantide

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Officina LuX


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Dal 1881 al 1934, le sedute medianiche in casa dei Conti Mancini-Spinucci a Fermo raccolsero le informazioni necessarie alla costruzione di tre macchinari futuristici incentrati sul concetto di “sintropia”. È questa la facoltà di invertire il tempo-proprio di un sistema affinché evolva spontaneamente dal disordine all’ordine, dall’omogeneità alla differenziazione. Come se i cocci a terra si ricomponessero nel vaso così com’era prima di cadere.

Ereditando gli studi preliminari del padre Cesare, e con essi i suoi prototipi, nel 1962 l’ingegnere Alessandro Porro realizzò il “rabdomante elettronico”. Il congegno captava le cosiddette “neutroonde”, emissioni abbinate alle onde elettromagnetiche, di pari frequenza ma capaci di attraversare la materia per chilometri senza venirne attenuate.

Nel sottosuolo padano, alla profondità di circa 400 metri, Porro rivelò dei “campi di sfere”. In ogni campo, decine di strutture sferiche in cemento e titanio occupavano i vertici di un reticolo di passo 80 metri. Il diametro delle sfere era di 40 metri. Al loro interno galleggiava una struttura squadrata suddivisa in 41 locali, ognuno dei quali ospitava un organismo umanoide in animazione sospesa.

Solo nel 1967 Porro ideò un sistema per misurare la profondità delle sfere. Prima supponeva di raggiungerle con uno sterro di 20-30 metri. Fu perciò iniziato uno scavo a Caslino.

Nel febbraio 1966, a 52 metri di profondità, il pozzo incontrò una risorgiva e dovette essere interrotto.

Mario Pincherle fa riferimento alle neutroonde distinguendole tra “onde chimiche” e “onde psichiche”: «Ogni sostanza, ogni materia, ha la sua vibrazione. Se consideriamo una scrittura effettuata con inchiostro, questa scrittura produce due tipi di vibrazioni. Una è dovuta al fatto che un essere umano, di suo pugno, scrive autobiograficamente il suo nome o effettua un qualsiasi altro scritto. Un’altra è dovuta alla composizione chimica dell’inchiostro».

«La vibrazione di una frase scritta autobiograficamente da un uomo ha una particolare lunghezza d’onda ben distinta da quella dell’inchiostro. È un’onda personale (oppure onda psichica) rilevabile anche se lo scritto è posto in busta chiusa. A far da “testimone” basta un capello, un pezzetto di pelle umana, un’unghia che riproducono vibrazioni. Con molta esattezza l’Antenna Bardeloni facilmente rileva queste vibrazioni.»

Il riferimento è al primo prototipo di rabdomante elettronico, realizzato e impiegato dal Generale Cesare Bardeloni nel 1923.

Continua Pincherle: «È anche possibile, con due Antenne Bardeloni poste in località diverse, individuare il luogo in cui si trova una persona scomparsa o nascosta. Questo è il sistema della parallasse e del radiogoniometro. Se la persona ricercata è nel frattempo defunta, l’Antenna Bardeloni, tramite un “testimone”, rileva due centri di irradiazione: uno proveniente dai resti umani, se si sono conservati nella sepoltura, e l’altro in direzione di un particolare punto dello spazio celeste, in cui un misterioso quid continua l’emissione dell’onda psichica della persona ricercata. Questa onda psichica ha lunghezza d’onda invariabile, ma ne varia l’intensità. Per quanto riguarda l’emissione dovuta alla materia inerte, questa onda chimica persiste finché dura la materia; poi, se la materia si dissolve, la vibrazione stessa sparisce».

Un’onda psichica, modulata dal pensiero e “riflessa” dalle creazioni dello stesso, fu registrata anche da Porro negli anni ’60. L’ingegnere trascrisse centinaia di fogli nei caratteri degli Antichi, riconoscendo tra questi anche un sillabario che associava parole a immagini, progettato apposta affinché chiunque a distanza di secoli fosse nella condizione di imparare quella lingua. Furono perciò disposte delle traduzioni, di cui qualcuna presente negli archivi del Rabdo Team.

Le sedute in Villa Spinucci condussero all’istituzione di un laboratorio chiamato “Officina LuX” e sottoposto all’Ordine della Rosa+Croce, in particolare alle logge denominate “RosaCroce d’Oro” e “Ordine dei Polari”.

A metà degli anni ’30 l’Officina arruolò il giovane fisico Ettore Majorana. Intanto, nel ’33, i fascisti avevano organizzato un laboratorio rivale negli scantinati dell’Università La Sapienza di Roma. Denominato “Gabinetto RS33”, la sua direzione toccò guarda caso allo zio di Ettore, Quirino Majorana. Forse per evitare le ingerenze di Quirino, nel ’38 Ettore fece smarrire le sue tracce, riparando prima presso la Certosa di Calci e più tardi nel Convento di Serra San Bruno.

Vent’anni più tardi, le ricerche di Ettore consentirono la realizzazione del “Dito di Dio”, che con un minimo apporto di energia consentiva l’ottenimento di cinque risultati straordinari: 1. Annichilimento della materia; 2. Conversione dello spin particellare in calore; 3. Trasmutazione della materia; 4. Inversione del tempo-proprio e conseguente ringiovanimento degli organismi biologici; 5. Teletrasporto.

Dalle ricerche dell’Officina LuX vennero anche gli UFO avvistati in Italia dal 1924, di cui il primo in agosto di quell’anno a Reggio Emilia. L’UFO-crash del 1933 a Vergiate consentì ai fascisti di mettere le mani su un Disco Volante e di avviare le operazioni di retro-ingegneria del Gabinetto RS33. Le ricerche passarono a Berlino con l’accordo Hitler-Mussolini del 1941, consentendo lo sviluppo del disco volante “Haunebu” e della campana levitante “Die Glocke”.

La NACA (poi NASA) ne acquisì i risultati nel 1945 con il Progetto Paperclip. Curioso però che la stessa tecnologia consentisse il successo dell’Esperimento Philadelphia il 12 agosto 1943, ottenendo il teletrasporto del cacciatorpediniere US Eldridge. Come se Tedeschi e Americani scambiassero la propria tecnologia ancora prima che la guerra finisse. Fatto è che dal 1947 cominciarono gli avvistamenti di UFO sui cieli americani, a iniziare dal 24 giugno con i nove oggetti segnalati dal pilota Kenneth Arnold nelle vicinanze del Monte Rainier, sulla West Coast.

Si suppone che i frequentatori dell’Officina LuX includessero il Segretario del Partito Socialista Unitario Giacomo Matteotti, principale antagonista di Benito Mussolini. Originario di Fratta Polesine, nel 1920 avrebbe accolto lo scrittore Howard Phillips Lovecraft in visita nella vicina Loreo. Nelle sue opere, il romanziere avrebbe trasposto le vicende culminanti dei cosiddetti “Antichi”, qui identificati con la “Stirpe di Cthulhu”. Alla fine della propria storia terrestre, un terzo avrebbe riparato sotto terra; un terzo si sarebbe stabilito su un pianeta del sistema trisolare di Sirio; un terzo infine sarebbe asceso abbandonando il proprio corpo materiale.

Ecco perché ufologia e medianità vanno di pari passo. Esseri ascesi ed extraterrestri condividono la stessa origine e comunicano regolarmente. I contattisti interagiscono con gli uni e gli altri.

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La Struttura delle Rivoluzioni Scientifiche

di Marcello Colozzo

Per Thomas Khun la conoscenza scientifica si realizza attraverso “mutamenti di paradigma”. In tali transizioni, un ruolo fondamentale è svolto dalla comunicazione verbale e quindi, dalla propaganda. Con le parole di Khun: «la verità è nel potere».

In un numero precedente abbiamo introdotto il falsificazionismo di K. R. Popper, una corrente filosofica che stabilisce un criterio di demarcazione tra scienza e non scienza.

Nei decenni successivi, le tesi popperiane furono oggetto di ampio dibattito, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, in occasione della pubblicazione del saggio The Structure of Scientific Revolutions[1] dell’epistemologo Thomas S. Kuhn (Cincinnati 1922 – Cambridge 1996).

Secondo Khun la conoscenza scientifica si realizza attraverso due modalità complementari: 1) modalità normale; 2) modalità rivoluzionaria. Nella prima ritroviamo una “comunità scientifica” che stabilisce l’esistenza di principi e regole generali. Ed è solo la fede in tali principi ad essere il fondamento della cosiddetta “prassi ulteriore”. Scrive Khun: «Il paradigma è costituito da conquiste scientifiche universalmente riconosciute, le quali, per un certo periodo di tempo, forniscono un modello di problemi e soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo di ricerca».

Ad esempio, un paradigma può essere costituito da una teoria T il cui requisito fondamentale è il seguente: T deve risultare migliore di altre teorie T’, T”, … in competizione con T.

È evidente che la modalità normale esibisce la massima performance nelle scienze applicate, per cui essa assume i connotati di una modalità di tipo ingegneristico.

Inoltre, eventuali soluzioni “inattese” sono escluse dall’indagine scientifica in modalità normale.

Quando, invece, si presentano delle “anomalie” cioè fatti sperimentali inspiegabili nella modalità normale, la fede nel paradigma viene indebolita. Lo step successivo consiste in una proliferazione di teorie contrastanti che compongono secondo Khun, il “nucleo della crisi” che implode in corrispondenza di anomalie “irriducibili” ovvero non risolvibili nella modalità normale. L’aumento progressivo del numero di studiosi consapevoli dell’esistenza di anomalie irriducibili, determina la transizione dalla modalità normale alla modalità rivoluzionaria, in cui l’evento risolutore è rappresentato dalla nascita di un nuovo paradigma.

La realizzazione di un nuovo paradigma è un evento discontinuo, cioè “istantaneo”. Scrive Khun: «[il paradigma] emerge tutt’a un tratto, talvolta nel buio più completo, nella mente di uno scienziato profondamente immerso nella crisi».

La “rivoluzione scientifica” è, dunque, costituita dalla transizione da un paradigma a un altro, transizione che si realizza grazie a “lampi di intuizione” interpretabili attraverso eventi psichici, irriducibili e allocati nel subconscio di quella speciale classe di studiosi profondamente immersi nella crisi. A nostro avviso, un esempio emblematico è offerto da Werner Heisenberg, uno dei principali artefici della “rivoluzione quantistica”. Scrive Heisenberg[2]: «Ricordo le discussioni con Bohr che si prolungavano per molte ore fino a tarda notte e che ci conducevano quasi a uno stato di disperazione; e quando al termine della discussione me ne andavo da solo a fare una passeggiata nel parco vicino, non potevo fare a meno di ripropormi in continuazione il problema: è possibile che la natura sia così assurda come ci appare in questi esperimenti atomici?».

Secondo Khun, i “lampi di intuizione” che innescano la transizione al nuovo paradigma, non hanno alcun legame logico e fattuale col vecchio paradigma. Ad esempio, il “quanto d’azione” introdotto nel 1900 da Max Planck, per risolvere l’enigma dell’emissione del corpo nero, è completamente estraneo alla fisica classica. Infatti, Planck inizialmente interpretò tale oggetto alla stregua di un artificio matematico finalizzato alla risoluzione del problema, per poi concludere che il quanto d’azione ovvero la quantizzazione dell’energia, caratterizzava il processo fisico in esame. Incidentalmente, il quanto d’azione si presentò nella seconda metà dell’Ottocento in una argomentazione di Hamilton, secondo la quale il moto di una particella (nel paradigma della meccanica classica) equivale alla propagazione di un’onda che obbedisce a un’equazione differenziale del tipo Schrödinger, in cui compare una costante fisica con le dimensioni di una “azione” (cioè, energia x tempo), e che si identifica con la grandezza trovata successivamente da Planck. Per questa ragione, il risultato di Hamilton venne interpretato come la conseguenza di un formalismo matematico privo di significato fisico.

Siamo, quindi, ben lontani dalla continuità temporale prevista dal falsificazionismo di Popper. L’inevitabile incommensurabilità tra un paradigma e il successivo, determina una “carica irrazionalistica” che è il building block dell’approccio psico-sociologico di Khun. Egli scrive: «la competizione tra paradigmi diversi non è una battaglia il cui esito possa essere deciso sulla base delle dimostrazioni».

Secondo Khun, l’adesione a un determinato paradigma è determinata da ragioni di natura propagandistica, che spesso assumono l’aspetto di un atto di fede. In ciò ravvisiamo un legame con lo scientismo, corrente filosofica ampiamente criticata dallo stesso Popper, attraverso il noto aforisma: «Se lo scientismo è qualcosa, esso è la fede cieca e dogmatica nella scienza. Ma questa fede cieca nella scienza è estranea allo scienziato autentico».

[1] Khun T. S., La Struttura delle Rivoluzioni Scientifiche, Einaudi 2009.
[2] Heisenberg W., Fisica e Filosofia. Il Saggiatore 1963.
[3] Belloni E., Thomas S. Khun: “Paradigmi” e “Rompicapi” nella Ricerca Scientifica, Annuario della EST 1976.
[4] Lunghi S., Karl Popper: Verifica e Falsificazione delle Teorie, Annuario della EST 1976.

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La Legge Cosmica nel Cenacolo Vinciano

Il Cenacolo realizzato da Leonardo da Vinci tra il 1494 e il 1498 è indubbiamente la più celebre delle rappresentazioni dell’Ultima Cena di Cristo. Il dipinto, realizzato su commissione del duca Ludovico Maria Sforza, è attualmente conservato presso il refettorio della chiesa di Santa Maria delle Grazie a Milano. L’opera che noi osserviamo con sguardo ammirato offre soltanto un flebile ricordo del capolavoro contemplato dai contemporanei di Leonardo. Sappiamo con certezza che il Cenacolo incominciò a deteriorarsi dopo pochissimi anni dal suo compimento a causa del metodo pittorico utilizzato dall’autore, la tempera mista su gesso, perciò dell’originale oggi è rimasto ben poco.

L’opera è stata oggetto di svariati restauri, con la conseguenza che nel tempo molti artisti hanno messo mano sull’originale contaminandolo e producendo talvolta delle incongruenze. Si pensi ad esempio all’ormai famosa mano armata di coltello che si trova tra il secondo e il terzo apostolo alla destra di Gesù: alcuni ritengono appartenga a Pietro, altri che in origine fosse attribuibile a Giuda, altri ancora che sia di un quattordicesimo misterioso personaggio chino a terra.

Diversi studiosi si sono dilettati a rintracciare nel cenacolo vinciano simboli e allegorie ermetici, proponendo a volte interpretazioni singolari. Una di queste vede in Gesù al centro della scena una rappresentazione del Sole, mentre gli apostoli attorno a lui raffigurerebbero le dodici costellazioni. Senz’altro si tratta di un’interpretazione intrigante, ma non possiamo fare a meno di domandarci se sotto questa decrittazione se ne nasconda un’altra, più profonda e impenetrabile. Del resto è piuttosto plausibile che Leonardo sia venuto in contatto con varie correnti esoteriche durante la sua vita; di lui si è detto addirittura che fosse stato un rosacrociano e un gran maestro del Priorato di Sion. Se ammettiamo, pur senza darlo per certo, questo presupposto ci aspetteremo di trovare nel cenacolo qualcosa di più di una riproduzione allegorica della mappa celeste col Sole e le dodici costellazioni.

La chiave di interpretazione per comprendere il significato più profondo del cenacolo potrebbe essere lo Gnosticismo, in particolare le sue propaggini definite “ofite” per le quali i Templari furono accusati di simpatizzare. Secondo gli Ofiti, il “Padre di Tutti” emanò il Figlio e solo dopo comparve l’Agape (lo Spirito Santo). Questa terna creò Cristo e sua sorella Sophia (la Saggezza), la quale ebbe dei figli, tra cui il demiurgo Jaldabaoth, il quale si ribellò all’autorità e creò il mondo materiale e l’uomo. Jaldabaoth rinchiuse i progenitori Adamo ed Eva nell’Eden per farsi venerare, ma Sophia inviò loro il serpente che li indusse a cibarsi di un frutto proibito capace di risvegliare la conoscenza. La Saggezza, infatti, all’insaputa del figlio, avrebbe infuso negli uomini una scintilla divina che rimaneva assopita per opera dello stesso Jaldabaoth. Secondo gli Ofiti Gesù, a volte identificato col serpente, sarebbe disceso dal cielo per accendere tale scintilla e liberare gli uomini dalla tirannia del demiurgo.

Durante il processo a carico dei Templari si discusse parecchio di un idolo chiamato Baphometus, che secondo le accuse i cavalieri avrebbero venerato: era descritto come una testa spaventosa con lunga barba bianca e occhi scintillanti e ad esso veniva attribuito il potere di far crescere i fiori e i raccolti. La stessa parola Baphomet tradisce un senso gnostico: nata dalla fusione dei due termini greci Bafo (= “tintura” e per estensione “battesimo”) e Meti (= “spirito”), possiamo tradurla con “battesimo dello spirito” o “illuminazione dello spirito”, il battesimo di fuoco degli antichi gnostici (lo Spirito Santo). Non sappiamo quanto attendibili fossero le confessioni dei cavalieri circa l’esistenza del caput Baphometi, visto che furono loro estorte dagli inquisitori con la tortura, e non ci risulta nemmeno siano state rinvenute prove della presenza di tale simulacro all’interno dei capitoli. Potremmo ipotizzare che tale culto fosse accessibile a una cerchia molto ristretta all’interno dell’ordine oppure che i cavalieri fossero riusciti a nasconderne le tracce in tempo, presagendo che tale simbolo prima o poi avrebbe potuto portare loro problemi.

Se gli Ofiti identificavano talvolta Gesù col serpente, c’era un’altra conventicola presumibilmente gnostica che lo identificava con l’Ofiuco dell’omonima costellazione. Nell’Elenchus o Refutatio omnium haeresium, opera del II secolo generalmente attribuita a Ippolito di Roma, si menzionano alcuni “anonimi eretici” la cui interpretazione della mappa stellare è degna di nota: costoro vedevano nella costellazione di Ercole un riferimento celeste al biblico Adamo, mentre i gruppi stellari vicini, ovvero le costellazioni del Drago, dell’Ofiuco, della Corona e della Lira, venivano associate rispettivamente al male, a Cristo, alla salvezza escatologica e al Logos. Per gli anonimi eretici la costellazione dell’Ofiuco o Serpentario sarebbe che la rappresentazione celeste di Cristo, il quale impedisce al Drago (emblema del male) e alla sua prole di raggiungere la Corona pregiudicando la salvezza dell’uomo.

L’Ofiuco, il cui nome deriva dal latino Ophiuchus, letteralmente “colui che porta (o domina) il serpente/conoscenza”, veniva spesso raffigurato nelle stampe e negli atlanti storici come un uomo con un enorme serpente avvolto attorno alla vita, con la testa dell’animale nella mano sinistra e la coda nella destra. La stella più brillante della costellazione, α Ophiuchi, era chiamata anche Ras Alhague, dall’arabo raʾs al-ḥayyah cioè “testa dell’incantatore di serpenti”.

In effetti, osservando una carta celeste antica noterete che Ras Alhague è posta proprio in corrispondenza della testa (spesso all’altezza dell’occhio destro) della figura mitologica del Serpentario, il che ci fa supporre che l’illuminazione dello spirito (ovvero il Baphomet) potesse rappresentare per gli Ofiti e i Templari la conoscenza portata o dominata dalla testa dell’incantatore di serpenti Ofiuco, la “Gnosi di RAs ALhague” o più semplicemente il G-RA-AL. Del resto sia la testa del Bafometto che il Santo Graal non erano forse oggetti che portavano benessere e abbondanza? Se la prima faceva maturare piante e messi, il secondo non era certo da meno per prodigi compiuti: nel Parsifal di Chretien il Graal appariva come un vassoio di abbondanza, nel Giuseppe d’Arimatea era la coppa dell’Ultima Cena, mentre nel Parsifal di Eschenbach veniva descritto come una pietra miracolosa in grado di produrre ogni cosa si potesse desiderare.

Tenendo a mente tali informazioni, abbiamo consultato una mappa delle stelle principali che compongono la costellazione del Serpentario e dopo averne prese alcune come punti di riferimento abbiamo tracciamo una linea che le congiungesse. I corpi celesti in questione sono: α Ophiuchi o Ras Alhague; ε Ophiuchi, conosciuta anche col nome tradizionale di Yed (dall’arabo “mano”) Posterior (dal latino “dietro”), posizionata in prossimità della mano sinistra del Serpentario; e ν Ophiuchi, a volte detta Sinistra in latino sebbene sia posta nella mano destra della figura mitologica.

Dato che l’Ofiuco veniva rappresentato come un uomo che trattiene un serpente (con la testa dell’animale nella mano sinistra e la coda nella destra), abbiamo aggiunto allo schema alcune stelle della costellazione del Serpente: η e θ Serpentis, posizionate nella parte corrispondente alla coda del serpente; e μ, ε, α, δ, β, κ e γ Serpentis, situate nella testa del serpente. Abbiamo quindi sovrapposto il tracciato all’Ultima Cena di Leonardo in modo che α Ophiuchi si andasse a collocare in prossimità dell’occhio destro di Gesù.

Se osservate l’immagine noterete come la mano destra (ν Ophiuchi) e quella sinistra (ε Ophiuchi) dell’Ofiuco coincidono con quelle del Cristo a tal punto da dare l’impressione che egli stia davvero afferrando il serpente. Un altro particolare notevole è la curvatura della coda dell’animale che combacia quasi esattamente con la piega della spalla del discepolo Giovanni.

Fermo restando che quella proposta è solo un’interpretazione, potremmo spingerci oltre ed ipotizzare l’esistenza di tre livelli di comprensione insiti nel cenacolo vinciano. Ad un primo sguardo , l’intelligenza razionale ci fa vedere Gesù assieme ai discepoli durante l’Ultima Cena, ma il potere dell’immaginazione in sinergia con alcune conoscenze astronomiche basilari apre ad un livello interpretativo più profondo: il tema della morte e risurrezione di Cristo si palesa attraverso le costellazioni e il ciclo della ruota solare. Il terzo livello, accessibile unicamente al pensiero intuitivo, svela l’esistenza di una conoscenza segreta, la “GNOSI DI RAS ALHAGUE” (G-RA-AL) della quale Cristo è latore. In essa sono custoditi il mistero della creazione, il segreto dell’immortalità e la possibilità per l’anima di liberarsi dal giogo di una legge cosmica che potremmo definire imprescindibile. Le più antiche tradizioni cosmogoniche svelano come l’intera creazione sia in balia di un ordinamento superiore per cui non può esistere bene/luce/vita/ordine senza male/tenebre/morte/disordine che si alternano in un’inevitabile polarizzazione. L’essenza di questa legge è stata custodita per secoli all’interno dei riti misterici così da poter essere accessibile a molti ma comprensibile a pochi, mentre le idee religiose furono per lo più tramandate attraverso simboli e miti enigmatici per non dire stravaganti.


Estratto da Stefania Marin, Il Giogo dell’Anima: L’Universo, l’Uomo e la Legge Cosmica, YCP 2024.


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Ermete Trismegisto, alias Ashyata Sheyimash

Ermete Trismegisto fu Gran Maestro della Fratellanza Bianca Egizia alla fine del XIV secolo a.C. (tra le gestioni di Akhenaton e Atonamen). I 42 libri a lui attribuiti e tradotti in greco ad Alessandria, costituirono una risorsa intellettuale in tutto il bacino mediterraneo fino alla loro sparizione (con la censura di Teodosio) e di nuovo con la loro riscoperta nella Firenze medicea del XV secolo.

Marsilio Ficino, che ne fu il primo traduttore moderno, descrisse Ermete come uno degli antichi maestri di una linea che avrebbe incluso tra gli altri anche Orfeo, Pitagora e Platone. Ficino attribuisce a Ermete la previsione di alcuni eventi religiosi futuri, tra cui la venuta di Cristo, la resurrezione, l’ascesa del Cristianesimo e il giudizio finale.

I suoi insegnamenti suscitarono ampio interesse nelle logge dei muratori, che vi scorgevano una saggezza spirituale e filosofica alternativa e complementare alla dottrina cristiana. Perfino in seno alla Chiesa si valutò di attingere ai Testi Ermetici per integrare le Sacre Scritture.

Nel 1488 lo scultore Giovanni di Stefano ne trasferì l’immagine nelle decorazioni marmoree del Duomo di Siena, in cui lo vediamo nell’atto di offrire un libro a Mosè, simboleggiando così il dialogo tra culture e tradizioni religiose​. Il cartiglio alla base della scena dichiara: «Hermis Mercurius Trismegistus contemporaneous Moysi» (Ermete Mercurio Trismegisto contemporaneo di Mosè).

Il Vescovo di Aire, Francoise Foix de Candalle, meglio noto come Flussas, nel 1570 ca. dichiarò che Ermete si era dedicato alla conoscenza delle cose divine superando quello «che era stato rivelato ai profeti ebrei, ed eguagliando le rivelazioni degli apostoli e degli evangelisti». Nel 1591, infine, lo studioso neoplatonico Francesco Patrizi si rivolse a Papa Gregorio XIV chiedendo che il Corpus Hermeticum venisse insegnato a tutti, finanche ai Gesuiti, affinché potesse servire come una sorta di strumento di conversione per la Chiesa cattolica, dato che il suo fascino avrebbe potuto richiamare «gli uomini capaci di Italia, Spagna e Francia; e forse anche i protestanti tedeschi seguiranno il loro esempio e torneranno alla fede cattolica».

Le proposte di integrazione furono infine bocciate, tanto più che gli insegnamenti di Ermete includevano una forma di magia talismanica che secondo i canoni ecclesiastici si inseriva a pieno titolo nella stregoneria. La massoneria reagì allontanandosi dai monasteri ed eleggendo dei capitoli laici.

Secondo G.I. Gurdjieff, dietro la firma di Ermete si nasconderebbe la figura del sapiente Ashyata Sheyimash, i cui natali furono in un villaggio presso Babilonia nel 1370 a.C. circa.

Ashyata compì due ritiri spirituali sul Vesuvio (Vezinyama), a conclusione dei quali fondò una fratellanza a Giulfapal (Golfo di Afar/Afraore, oggi Afragola) chiamata Hishtvori (lett. “è figlio di Dio chi è consapevole”). Il Paese, sotto giurisdizione degli Opici, era al tempo chiamato Kurlandtech (Kur-tek Land, terra della montagna-sostegno).

Più tardi, il maestro si spostò in Egitto. I suoi insegnamenti – diffusi dai discepoli – avrebbero ispirato le rivolte popolari che segnarono il crollo dell’età palaziale in Grecia e Mesopotamia (fine del periodo acheo e cassita).

Il suo discepolo più illustre fu il faraone Akhenaton (r. 1348-1333 a.C.). Colpevole di avere introdotto il monoteismo – mettendo a rischio il prestigio dell’élite sacerdotale tebana –, nel 1333 a.C. il sovrano fu espulso dal Paese e trovò rifugio ad Harran, nell’Alta Mesopotamia. Con sé recava gli scritti del Maestro Sheyimash, la cui diffusione fece sorgere ad Harran la comunità dei Sabei. Gli stessi più tardi avrebbero fondato una “colonia” a Baghdad.

I Sabei tennero presso di sé i Testi Ermetici in una sorta di lunga incubazione nel periodo l’Occidente ne aveva perso la memoria. Tobias Churton osserva: «è sicuramente strano che proprio quando i Sabei sembrano scomparire da Baghdad, i documenti a noi noti come Corpus Hermeticum appaiono a Costantinopoli dopo un intervallo di 500 anni».

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Antipodi e Permutazioni

Secondo i praticanti della Cabala, la lingua ebraica sarebbe la lingua primordiale parlata dagli Antenarya, da cui le altre (indoeuropee e semitiche) sarebbero derivate. Spiegano inoltre che le parole ebraiche sarebbero state concepite di modo che ogni permutazione delle consonanti chiarisse una sfumatura della parola di partenza, contribuendo a estenderne il significato e a restituirle il senso originario nel caso in cui il tempo lo alterasse. Questo in effetti si realizza, benché in forma minore, anche nel sumero. In particolare si prestava attenzione alle parole di tre consonanti (oggi potremmo dire di tre sillabe) e alle sei possibili permutazioni, ciascuna delle quali identificava un vertice dell’esagramma. Ho perciò tracciato la figura sottostante.

Su due di quei siti (Wuhan e DaLat) si trovano oggi due importanti laboratori biotecnologici. Un terzo ospita una sede della NASA (Punta Arenas). Gli altri tre sono siti archeologici connessi al mito della Terra Cava (Asgarta, Erks e Akakor). Wuhan è agli antipodi di Erks, Punta Arenas è agli antipodi di Asgarta (sul Lago Bajkal), DaLat è agli antipodi di Akakor.

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Dagli Assidei ai Collegi Romani

Una volta stabilizzata la situazione in Palestina, intorno al 1.150 a.C., Giosuè (erede militare di Mosè) assegnò ai suoi fedelissimi il territorio di Gerico, ma essi rifiutarono per ritirarsi nel deserto e vivere sotto le tende tra Gerico ed En-Gadi. Identificati sotto il nome Daniti[1], nel IX secolo a.C. essi costituirono inoltre una comunità in Galilea, erigendo un tempio-monastero sul monte Carmelo.

Una buona metà era tuttavia talmente disgustata dai dissidi sorti con le restanti tribù[2] che preferì migrare verso nord, nel Curdistan, insediandosi in particolare nella vecchia Sciamiramagard (che essi battezzarono “Dan” e che oggi è Van), oltre che nella cosiddetta “Isola dei Beati”, al centro del lago Sevan (oggi sommersa). Qui presero nome di “Recabiti” in onore di Rechab, figlio di Eliezer, figlio di Mosè.

Alcuni testi del XIX secolo fanno riferimento ai Daniti come Assidei/Assidii o Cassidii/Cassiti, descrivendoli come una delle più antiche corporazioni muratorie, presente in Palestina già al tempo di Salomone e coinvolta nell’edificazione del Primo Tempio (IX secolo a.C.).[3] Gli Assidei – sostengono – sarebbero stati depositari di un’antichissima scienza sacra che tramandavano attraverso le loro opere, sotto la guida del leggendario architetto Hiram Abif. Così leggiamo ad esempio in un saggio del 1875 intitolato Rivelazioni Storiche sulla Massoneria:

<Hiram, nel tempio che costruì [il Tempio di Salomone], pose i simboli usati dalla sua associazione. Le colonne Jachin e Boaz stavano ai due lati delle porte del tempio, ed ivi ricevevano il loro salario gli apprendisti e i lavoranti. Il vaso lustrale era sostenuto da dodici buoi, quanti i mesi dell’anno, disposti a gruppi di tre, quanto il periodo delle stagioni. Le sette luci rappresentavano i sette pianeti, o meglio i sette capi dell’Ordine. I settanta pezzi del candelabro significavano le divisioni delle costellazioni, o meglio la mistica compagine dell’ordine stesso, e via discorrendo. Gli operai che egli adunava, disciplinati e obbedienti, ad un solo suo segno si dividevano in Maestri, Lavoranti ed Apprendisti. Dei primi stabilita una [cerchia] eletta, fu questa posta alla custodia del tempio, e le fu data la denominazione di Cassidi o Assidei, o Kadosc, ossia Sacri cavalieri. Da essi più tardi discesero gli Essenii.>[4]

Alcuni membri della fratellanza si sparsero…

<… in Asia Minore e in Grecia, intrecciandosi con le altre diramazioni dei Misteri Cabirici perfezionati [dacché si suppone una coordinazione dalla Fratellanza Bianca Tebana, dalla Confraternita Babilonese di Sarmoung o dall’Ordine di Melchisedek presso il Lago Bajkal]. Assunsero quindi le denominazioni di Compagni di Attalo in Asia e di Operai Dionisiaci in Grecia. Gli stessi portarono i loro statuti pure a Roma, e vissero vita prospera sotto la protezione delle leggi romane: riconoscendo i loro due gradi – Collegio degli Architetti e Collegio degli Artefici, suddivisi all’interno in altri gradi più variati -, gli ordinamenti dell’Urbe riservarono agli Assidei l’erezione dei templi e degli edifici pubblici.>[5]

Fu il secondo re, Numa Pompilio, a istituire a Roma i Collegi degli Artefici (Collegia Artificum), al cui vertice egli pose i Collegi Architettonici (Collegia Fabrorum). I primi membri di questi corpi venivano dalla Grecia (precisamente dall’Attica), invitati da Numa appositamente per l’organizzazione dei collegi.[6] Questi furono affidati alla protezione di Giano, il mitico Re del Lazio che accolse il titano Saturno accettando di condividergli la regalità e i benefici dell’Età dell’Oro. Non è chiaro se tali associazioni fossero dapprincipio accostate al culto di Saturno (Moloch o Baal in Palestina) o se vi approcciassero dopo l’esportazione in Grecia e in Italia.

Tradizionalmente si pone l’operazione di Numa al 714 a.C., e tuttavia è ben noto che la fondazione di Roma – e di conseguenza tutti gli eventi datati Ad Urbe Condita) – fossero stati anticipati al fine di avvicinarli alla fondazione della rivale Cartagine (814 a.C.). Tanto è vero che nella Vita di Numa (parte delle Vite Parallele), lo storico Plutarco pone il sovrano tra gli allievi di Pitagora a Crotone. Considerata l’esistenza su questo piano del filosofo samio dal 575 al 495 a.C., potremmo supporre uno spostamento di tutte le date all’indietro di circa 200 anni.

Asceso al trono all’età di quarant’anni, il regno di Numa si porrebbe perciò all’intorno del 500 a.C.. Ne consegue che eventi accaduti in quegli anni sarebbero stati associati a un sovrano successivo, ovvero a colui che avrebbe regnato nel 500 a.C. secondo la “nuova cronologia”: il despota Lucio Tarquinio. Inferiamo che sarebbe stato Numa (e non Tarquinio) a incontrare la Sibilla Cumana, a ricevere i Libri Sibillini e a istituire l’Ordine dei suoi custodi: i Duoviri Sacri Faciundis. In tal caso, la consigliera di Numa, la “sibillina” Egeria, sarebbe appunto la Sibilla Cumana. E i libri sepolti con il re nel Gianicolo e successivamente bruciati in quanto “pericolosi” sarebbero ancora i Libri Sibillini.[7]

L’evenienza che Numa fosse sabino (originario di Cures), esponente perciò di un popolo cugino a quello ebraico (Ebrei e Sabini venivano entrambi dagli Hyksos), unita ai rapporti coi pitagorici (di cui si attestano i contatti, se non un vero coordinamento, con la comunità essena), ne fanno in effetti il sovrano più adatto all’instaurazione di un Ordine simile a Roma.

Nel 367 a.C. la Lex Licinia Sextia portò i membri dei Sacri Faciundis a quindici, rinominandoli Quindecemviri Sacri Faciundis. Nel I secolo il filosofo Seneca era uno di questi, il ché suggerisce in primo luogo che ereditasse il mandato di Numa, in secondo che gli Assidei romani costituissero una scissione ostile e reietta degli Esseni palestinesi. Altrimenti non sarebbe seguito lo scontro tra i farisei mobilitati da Seneca (gli Ebrei del Patto) e i Desposyni guidati da Giacomo di cui abbiamo detto in altre pubblicazioni.[8] (Cfr. I Leader di Israele.) Scontro protrattosi ai primi anni del XVIII secolo.

Un contributo ai Collegi Romani potrebbe ricondursi inoltre ai Daniti del Lago Sevan. Questi si trovavano entro il Regno di Urartu (oggi Armenia), costituito nell’860 a.C. da quegli stessi Shardana che erano venuti in Libano nel 1200 a.C., dopo l’epidemia di malaria in Sardegna. I sovrani di Urartu erano detti “Sari” o “Seri”, la cui radice “Shar” (lett. “principe”) è la stessa che trasforma “Dan” in “Shardana” (lett. “principi di Dan”). Dacché il geografo alessandrino Tolomeo (100-180 d.C. ca.) adottò lo stesso appellativo, “Seri”, in riferimento alla fratellanza ivi installata.

Nella Geografia, Tolomeo attribuisce ai Seri l’edificazione in Asia della città di Iskedin (Issedon), il ché si allinea curiosamente con la presenza ancora oggi di diversi siti denominati Edinisk (Udinsk) sulle rive del fiume Selenge e dei suoi affluenti, non molto a sud del Lago Bajkal. Edin-Isk è l’inverso di Isk-Edin, e come detto altrove era usanza presso le antiche fratellanze invertire le sillabe per indicare gli stessi concetti o concetti similari.[9] Di nuovo torna l’idea di un coordinamento da parte dell’Ordine di Melchisedek installato sul Bajkal.

Nell’VIII secolo alcuni principi di Urartu si spostarono in Etruria (Toscana e Alto Lazio) spaventati dagli attacchi degli Assiri e richiamati dalle nuove miniere appena scoperte nella regione italiana. Qui avrebbero accelerato la formazione della cultura etrusca, divenendo coloro che i Romani chiamavano princeps, con possibile riferimento al già citato “Shar”.

Nei princeps affondano le radici della Gens Claudia, che diede a Roma gli imperatori Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone (dal 14 al 68 d.C.). Il capostipite, Clauso, aveva installato la propria famiglia a Caere (odierna Cerveteri) finché nel 504 a.C. il suo discendente Attus Clausus (romanizzato in Appio Claudio) si trasferì a Roma con il proprio seguito di parenti, amici e ben 5000 clientes, a ciascuno dei quali furono assegnati due iugeri di terreno (equivalenti a circa mezzo ettaro). Allo stesso Appio Claudio, che fu subito accolto nel patriziato romano, furono assegnati venticinque iugeri. Siamo di nuovo entro il regno di Numa Pompilio.


[1] I Daniti, noti anche come “Tribù di Dan”, integravano elementi della famiglia mosaica ed ex guerrieri mercenari di etnia shardana. Secondo Manetone, Mosé sarebbe stato infatti coordinatore delle truppe mercenarie shardana installate a Goshen, nella regione orientale del Delta, con le quali avrebbe raggiunto un’intesa fraterna. Una volta conquistata Canaan, i Daniti avrebbero costituito due comunità monastiche, rispettivamente nel deserto palestinese tra Gerico ed En-Gadi, e sull’“Isola dei Beati” nel Lago Sevan, oggi sommersa. Più tardi (nel 161 a.C.) i Daniti del deserto si sarebbero amalgamati con la colonia della Fratellanza Bianca sul Mar Morto (a Qumran), divenendo coloro a cui normalmente ci si riferisce come “Esseni”. Cfr. D. Marin, Breve Storia degli Illuminati, SoleBlu 2022, p. 32.

[2] Poiché Mosè era stato scelto da Dio per trasmettere al popolo la Legge, si stabilì inizialmente che la carica di sommo sacerdote spettasse in eterno alla sua discendenza. Tuttavia i più giovani tra gli Israeliti ritenevano poco opportuno affidare tale incarico (che includeva la custodia dell’Arca dell’Alleanza) a coloro nelle cui vene scorreva sangue egizio. Infine, pur non ottenendo la destituzione dall’incarico, la protesta condusse nondimeno alla revisione delle genealogie ufficiali, di modo che nei registri del Tempio i discendenti di Mosé figurassero (falsamente) discendenti di suo fratellastro Aronne. Da allora al termine “Daniti” si preferì il più neutro “Leviti”.

[3] L’Umanitario Giornale Massonico, Anno I, Edizione II, Palermo, 1867. Cfr. anche F. T. e B. Clavel, Storia della Massoneria e delle Società Segrete, Gherardo Casini 2010.

[4] M. G. da C., Rivelazioni Storiche su la Massoneria, Edizione II, Tipografia G. Faziola e C., Firenze, 1875, p. 29.

[5] M. G. da C., Rivelazioni Storiche su la Massoneria, op. cit., p. 31.

[6] F. T. e B. Clavel, Storia della Massoneria e delle Società Segrete, op. cit.

[7] Secondo Tito Livio (Ab Urbe Condita, Lib. XL) e Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, Lib. XIII), i libri furono scoperti casualmente nel 181 a.C. quando un contadino, scavando nel Gianicolo, trovò due casse di pietra: una contenente il corpo del re (ormai decomposto), l’altra i rotoli. In totale vi sarebbero stati 12 libri di diritto religioso e 12 di filosofia greca. Ritenuti pericolosi, su suggerimento del Senato le autorità romane ordinarono che i testi fossero bruciati.

[8] Cfr. Appunti di Storia Proibita, I.P. 2022, #12; e CoCreatori del Cosmo, I.P. 2024, App. C.

[9] Cfr. Appunti di Storia Proibita, I.P. 2022, #16; e Cronache del Dominio, I.P. 2024, p. 42.

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Dalla Struttura di Asgharta alla Fratellanza di Babilonia

Nella cultura induista il simbolo a lato rappresenta il “suono” della creazione o, in altri termini, la frequenza dell’onda d’urto innescata dal Big Bang. Viene comunemente traslitterato in alfabeto latino come OM, e tuttavia, a nostro parere, è più importante come esso si pronuncia, in quanto sempre l’induismo ritiene che il suono dell’OM contenga in nuce le stesse potenzialità dell’onda creativa. Adottando ancora l’alfabeto latino, suddetta pronuncia verrebbe resa in AUMMM, con la triplice M ad indicare che la vibrazione della M deve essere sostenuta per alcuni secondi.

È nostra ipotesi che la stessa pronuncia venisse resa in un precedente alfabeto (oggi perduto) in uso presso il popolo Antenarya, da cui in momenti diversi sarebbero emersi tanto il popolo Indiano (Antenarya > Cultura di Harappa-Mohenjo Daro > Indi) quanto quelli Latino (Antenarya > Sciti > Hyksos > Sabini > Latini) e Germanico (Antenarya > Sciti > Germani). Esplicitamente:

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