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Meditazione Statica e Dinamica

Meditazione Statica e Meditazione Dinamica

Quanto alle tecniche di meditazione, possiamo distinguerle in due grandi categorie: le meditazioni statiche e le meditazioni dinamiche. Ambedue hanno in comune l’attenta osservazione interiore, ma mentre nelle prime si sta in una posizione seduta o comunque immobile, nelle seconde il corpo è in movimento.

Le meditazioni statiche sono quelle classiche praticate in Asia da millenni. Sono state concepite ed elaborate per popoli che passavano le loro giornate all’aria aperta, nei quali il lavoro era principalmente un’attività fisica, e vi era molto contatto corporeo tra le persone, dalla nascita fino alla morte: per persone, insomma, il cui principio di identità si fondava più su un senso corporeo ben radicato, che non sulla mente e sull’immagine di un io individuale.

Oggi viviamo nel modo opposto: molti lavorano seduti, fanno poco movimento, il contatto corporeo con gli altri viene limitato ai membri della famiglia, l’identità è assai più un’idea di sé stessi che non un senso del proprio corpo. La maggior parte delle persone in Occidente non percepisce molto attraverso i sensi fisici, ha un «corpo sordo» e lo tratta come un oggetto. Quando rimaniamo seduti in meditazione è difficile che il nostro corpo fisico ed energetico sia vitale, armonizzato e permeabile alle sensazioni. Al massimo, possiamo avvertire un male alla schiena. Per noi occidentali, quando cominciamo a meditare, sono dunque assai utili le meditazioni dinamiche, che ci insegnano a vivacizzare il corpo e a sfogare tutta l’energia compressa, per potere poi, con un corpo più permeabile energeticamente, addentrarci nel silenzio interiore.

Possiamo paragonare la meditazione all’atto di pulire lo specchio – lo specchio della pura coscienza. E dallo strato di polvere depositato sullo specchio dipenderà la scelta del migliore attrezzo per la pulizia.


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La Genesi del Necronomicon

La Genesi del Necronomicon

Necronomicon è il nome di un antico grimorio[1] che per sua stessa ammissione avrebbe ispirato le opere orrorifiche dello scrittore americano Howard Phillips Lovecraft (1890 – 1937, figlio e nipote di massoni[2]), salvo poi che egli stesso, nel 1933, rivelò in una biografia di avere inventato l’intero argomento.[3]

Prima di tale rivelazione, il Necronomicon sarebbe stato (a parole di Lovecraft) una compilazione in lingua araba di formule ed incantesimi che un certo “arabo pazzo” vissuto nel X secolo avrebbe tratto da papiri o tavolette riesumati tra le rovine di Ubar, presso l’odierna Shisr in Oman. Questi formulari, che nell’opera di Lovecraft vengono chiamati Manoscritti Pnakotici, risalirebbero all’antico regno di Magan (coincidente con gli attuali territori di Yemen e Oman, l’egizia Punt), ricordato dalle cronache sumere per l’esportazione in Mesopotamia (e alla foce dell’Indo) di rame, diorite e soprattutto incenso.

La stessa Ubar, chiamata “Ubar dalle Colonne Alte” nel Corano e “Irem dalle Mille Colonne” ne Le Mille e Una Notte, risalirebbe, secondo le prospezioni archeologiche, ad un’età precedente il 2.800 a.C.. Il suo abbandono, datato al 200 d.C., avvenne durante l’occupazione persiano-partica, quando i numerosi livelli sotterranei della città sarebbero collassati su sé stessi. Solo nel 1600 d.C. gli Arabi Hashemiti (che governavano la penisola pur riconoscendo la supremazia del Sultano di Istanbul) vi edificarono una nuova fortezza (circondata da otto corsi murari) a protezione del pozzo che a quanto pare garantirebbe l’approvvigionamento idrico ancora oggi. Il mito fa risalire invece la prima edificazione della città ai giganteschi Jinn, Signori del Fuoco guidati da Shaddad. Al tempo si sarebbe chiamata R’lyeh, dove «il morto Cthulu attende sognando».[4]

Per la biografia dell’“arabo pazzo”, che Lovecraft appellava simpaticamente Abdul Al-Hazred (contrazione di “all has read”, ovvero “[egli] ha letto tutto”) attingiamo dal lavoro di Roberto Volterri e Bruno Ferrante:

<Alla fine del X secolo, più esattamente nell’anno 965 d.C., nacque in Iraq, a Bassora, colui il quale divenne in seguito noto come lo scienziato pazzo del Cairo, ovvero Abu Alì al-Hasan ibn al-Haitham, dagli storici dell’Occidente denominato Al-Hazen. A soli 30 anni egli era totalmente padrone della matematica e della fisica, nonché della filosofia e di molte altre scienze proibite, tanto che il califfo egiziano Al-Hakim, stimandolo moltissimo, lo inviò al Cairo ad approfondire i suoi studi. In questo luogo, osservando le periodiche, rovinose inondazioni del Nilo, Al-Hazen pensò di risolvere il problema proponendo di costruire una diga nella gola di Assuan. Sì, proprio ad Assuan, dove nel 1971 – quasi otto secoli più tardi, però! – fu veramente inaugurata la nota gigantesca diga, alta 114 metri e lunga oltre tre chilometri e mezzo, in grado di dar origine ad un lago di 5.180 km2. Ma la tecnologia ha i suoi tempi lunghi e, nonostante l’idea di Al-Hazen fosse la più geniale, dopo aver esaminato a fondo il luogo e dopo aver discusso con i collaboratori assegnatigli da Al-Hakim gli innumerevoli problemi costruttivi, egli prese atto del fatto che era materialmente impossibile edificarla con gli scarsi strumenti a disposizione. Onestamente espose al califfo – ben noto per aver fatto giustiziare tutti quelli che avevano deluso le sue aspettative – le sue ragioni, aggiungendo però di non essere totalmente responsabile dell’insuccesso, poiché egli si riteneva pazzo. Poiché la legge islamica proteggeva i folli, ritenendoli toccati dalla mano di Dio, Al-Hazen venne imprigionato fino alla morte del poco magnanimo califfo, avvenuta nel 1021. Ma l’arabo pazzo Al-Hazen doveva pur sopravvivere e, per farlo, si dedicò alla traduzione delle opere di Euclide e di Tolomeo, continuando però le sue ricerche. Proibite o meno. Così, fu poi pubblicato il più che ponderoso trattato intitolato Opticae Thesaurus, in cui egli puntualizzò correttamente che la vista non dipende dalla fantomatica emanazione di raggi luminosi che partendo dall’occhio avrebbero raggiunto l’oggetto osservato, ma – proprio il contrario – dipende da radiazioni luminose (forse non proprio così descritte) che, colpendo le parti sensibili dell’occhio (la retina, i coni, i bastoncelli, ecc.) suscitano nel nervo ottico e poi nel cervello la percezione del mondo reale che ci circonda. Leonardo da Vinci e i suoi studi analoghi giunsero solo quattro secoli più tardi.[5]>

È ragionevole ascrivere la visita di Al-Hazen ad Ubar a prima della sua prigionia e il suo viaggio a Costantinopoli negli anni successivi. Qui avrebbe avuto modo di incontrare il monaco Michele Psello, letterato e politico alla corte bizantina, e di consegnargli una copia del Necronomicon. Sarebbe stato proprio Psello, suggerisce Pietro Pizzari[6], ad adottare questo titolo per la sua tradizione in greco (lett. “libro delle leggi che governano i morti”) di quello che in origine era l’Al Azif, termine onomatopeico impiegato nella lingua araba per indicare gli strani suoni notturni emessi da alcuni insetti e interpretati come “l’ululato dei Jinn”. Presumibilmente Al-Hazen vide negli Jinn la prosecuzione della “Stirpe di Cthulhu”, una specie aliena non completamente incarnata che avrebbe abitato la Terra decine (se non centinaia) di milioni di anni fa e i cui spiriti sarebbero stati evocati dai Parti (e prima di loro dai Babilonesi e dai Sumeri) proprio per mezzo dei Manoscritti Pnakotici.

Il passaggio di “qualcosa” dalle mani di Al-Hazen a quelle di Psello è solo il primo anello di una catena che in effetti conduce dall’“arabo pazzo” alle opere di Lovecraft. A meno che non emerga una copia originale del manoscritto, difficilmente potremmo verificare se questo “qualcosa” comprendesse il Necromonicon, ma vale comunque la pena di esaminarne l’intero percorso.

Nel 1453, durante un viaggio in Macedonia sulla via di Costantinopoli, uno scrittore italiano della Corte dei Medici, Leonardo da Pistoia, scoprì quattordici trattati originali appartenuti a Michele Psello, scritti in greco ed attribuiti ad Ermete Trismegisto, maestro di sapienza e figura leggendaria dell’Antico Egitto, guida della “Fratellanza Bianca”[7] tra il 1.333 e il 1.259 a.C.. Ritornato a Firenze, Leonardo consegnò i trattati a Cosimo de’ Medici, che incaricò subito Marsilio Ficino di tradurli dal greco al latino. Il lavoro fu completato nel 1463 e l’opera divenne universalmente nota come Corpus Hermeticum.

Benché il Corpus Hermeticum fosse destinato a diventare il testo fondamentale della futura massoneria speculativa, è altresì noto che Cosimo (come molti altri tra i Medici) appartenesse ad una fratellanza totalmente contrapposta ai fini massonici, la quale era sorta in seguito alla commistione degli Assassini di Masyaf (convocati in Italia a più riprese da Federico II di Svevia, dal 1227) con gli Eleusini arrivati a Firenze nel XIV secolo.[8] Non è pertanto impossibile che Cosimo avesse ritenuto prudente tenere nascosta la scoperta del Necronomicon, semmai gli fosse giunto dalle stesse mani che avevano portato a Firenze gli scritti ermetici.

A tal riguardo scrive ancora la coppia Volterri-Ferrante:

<Secondo una ricercatrice che si firma Laura Bestini, nel 1912, a Firenze, sarebbe stato rintracciato il frammento di un manoscritto bizantino (il Fragmentum Alchemicum Florentinum) conservato nella Biblioteca Riccardiana della città toscana.[9] Il frammento, di limitate dimensioni, avrebbe contenuto poche parole intellegibili e sarebbe stato presto dimenticato. Nel 1965 sarebbe stato fotografato per poi andare perduto nell’alluvione dell’anno seguente. Ciò che sarebbe apparso strano alla ricercatrice fiorentina, sarebbero alcune parole che farebbero riferimento al deserto dell’Arabia, a una località chiamata R’lhee, a qualcosa che non è morto e al passare di eoni. Non ci ricordano forse, queste parole, alcuni passi dei libri di Lovecraft e in particolare il famosissimo distico attribuito al misterioso arabo Al-Hazred? («Non è morto ciò che in eterno può attendere, e con il passare di strane ere anche la morte muore»[10].)[11]>

Il Fragmentum Alchemicum Florentinum, l’unica quasi-prova dell’esistenza del Necronomicon. Fonte: Hera 26, Febbraio 2002.

Da Firenze il Necronomicon sarebbe passato ai Medici della Serenissima, famiglia del patriziato veneziano strettamente imparentata con i Medici di Toscana. Qui sarebbe stato affidato all’umanista Giulio Camillo (detto “Delminio”, 1480 – 1544) e da lui trasmesso più tardi (e per vie traverse) alla Confraternita dei Flagellanti di Loreo, cittadina della provincia di Rovigo che era un tempo caposaldo militare ed economico della Repubblica di Venezia:

<Da quasi cinquecento anni, la domenica successiva alla Pentecoste, durante la solennità della SS. Trinità, a Loreo si celebra una strana cerimonia presso la cosiddetta Confraternita dei Flagellanti. Verso la mezzanotte ha inizio una curiosa cerimonia pubblica durante la quale avviene la vestizione dei nuovi adepti. «Fratelli, che dimandate?», chiede il celebrante. «La misericordia di Dio e la pace di questa compagnia», rispondono in coro i nuovi adepti. Fin qui nulla di strano. Però, più tardi, verso le tre del mattino, il celebrante pronuncia altre strane parole: «Avvertiti tutti i fratelli d’un perfetto silenzio, chiuse tutte le porte e conoscendo il priore essere i tutti fratelli al loro posto e bene preparati». Ora i fradei – ovvero i “fratelli” – escono in processione, nei loro sai rossi, incappucciati, e si avviano alla chiesa del Pilastro per una veglia… cimiteriale. Ancora oggi si mormorano strane cose su tali cerimonie “segrete”. C’è chi sostiene che, addirittura, si debba subire un’ispezione fisica per accertare il sesso dei postulanti, poiché le donne non sono ammesse alla Confraternita. Altri sostengono che al momento della morte di uno dei fradei, sotto il suo capo debba essere posto un mattone e il suo nome debba essere immediatamente cancellato dall’elenco della Confraternita, altrimenti il suo spirito vagherebbe in eterno tra quelle contrade. Chi la sa più lunga sostiene che, durante la cerimonia segreta, la presenza di un estraneo, anche se non visibile, bloccherebbe ogni azione del celebrante. Quasi un’azione magica. Insomma, le dicerie popolari avrebbero creato un alone “esoterico” intorno a una cerimonia che di “esoterico”, di “magico” poco sembra avere. Gli attuali duemila “adepti” – i fradei – non gradiscono molto i vari “si dice”, ma ricordano con orgoglio le origini della loro Confraternita, risalente ai primi anni del 1600. All’epoca, ai confratelli veniva comunque imposta la totale obbedienza al priore, il dovere della penitenza, l’osservanza di una ineccepibile condotta morale, le preghiere, e così via, poiché «procurate, o fratelli, di confessarvi e comunicarvi spesso, e talvolta di far la disciplina in casa divotamente, e con gli altri fratelli nell’oratorio, perché non basta, fratelli, solamente di vestirsi di questo sacco», esortava infatti il priore. Ancor oggi, comunque, un quasi evanescente velo di mistero aleggia da quelle parti poiché la regola della Confraternita recita: «a quelli che vi dimandano direte che vengano ancor essi, se vogliono sapere, che vedranno e sapranno». Ovvero «Non dire mai tutto quello che sai!».[12]>

Quasi certamente la Confraternita non faceva alcun utilizzo dei contenuti del Necronomicon, il quale veniva invece custodito gelosamente affinché non cadesse nelle mani sbagliate. Benché sia probabilmente un falso la notizia secondo cui il Necronomicon sarebbe apparso nell’Indice del Sant’Uffizio pubblicato nel 1559[13], se non fosse stato prioritario mascherarne l’esistenza vi sarebbe stato certamente incluso di diritto.

Curiosamente però il libro sembra essere stato consegnato nelle mani apparentemente meno adatte che si potessero incontrare: quelle del mago inglese Aleister Crowley. Quest’ultimo sarebbe passato furtivamente per Loreo tra il 1919 e il 1920, ovvero tra il suo soggiorno in Villa De Vecchi (Casa Rossa) a Cortenova (LC) e il suo insediamento a Villa Santa Barbara di Cefalù (PA), da cui Mussolini lo espulse a fine aprile del 1923.

Volterri e Ferrante spiegano come il libro sarebbe infine passato da Crowley a Lovecraft:

<Nel 1918 Aleister Crowley è a New York per conferenze sulla magia. Per dare risalto alla sua reputazione letteraria pubblica qualche articolo su The International e su Vanity Fair. Il “caso” vuole che a New York, nello stesso periodo, ci fosse anche Sonia Greene (1883 – 1972), giovane e piacente immigrata ebrea con irrefrenabile desiderio di sfondare nel mondo della letteratura. Il “caso”, ancora, vuole che ella frequenti un circolo letterario chiamato Walkers’s Sunrise Club dove Crowley è stato invitato per dare sfoggio della sua “vena poetica”. In questa circostanza Crowley inizia una “affettuosa amicizia” con l’intraprendente Sonia, la quale apprende dal mago l’esistenza di realtà separate e di strani rituali per entrare in contatto con entità dimoranti in altre dimensioni. […] Il 12 Marzo 1921, a Boston, quando Lovecraft ha trentuno anni, ha luogo il fatale incontro con Sonia Greene – di pochi anni più anziana e sicuramente più matura di lui – e la nascita di una relazione culturale, e in seguito, sentimentale, sfociata nel 1924 in un matrimonio che ha, però, breve vita. Ciò che a noi più importa è che solo pochi mesi dopo averla incontrata e aver con lei creato un rapporto, diciamo così, di natura intellettuale, nell’Ottobre del 1921 Lovecraft menziona per la prima volta il Necronomicon nel racconto The Hound.[14]>

Come esposto in Appunti di Storia Proibita[15], Crowley fu il tramite che dall’impero bancario Rothschild nel 1934 incaricò l’esoterista italiano Giuseppe Cambareri della fondazione della P2, vertice delle Logge Massoniche Internazionali o Ur-Logge.[16] Sono noti inoltre i suoi interessi “luciferini”. Dovremmo dunque pensare che dissimulasse, come un Severus Piton ante litteram? Fatto sta che Crowley non rivelò mai nei suoi scritti o nelle sue conferenze di aver posseduto il Necronomicon.

Tra maggio e giugno 1926 Lovecraft avrebbe quindi visitato il Polesine[17] (compresa Loreo) o almeno è questo ciò che traspare da una specie di “diario”: si tratta di una quarantina di pagine scritte in inchiostro blu su carta comune, corredate di immagini e contenute in una rovinata busta giallastra intestata all’amico Alfred Maurice Galpin (1901 – 1983) residente all’epoca a Montecatini Terme, in Toscana. Insieme alle pagine vi era una cartolina di Venezia in cui si vedevano il Caffè Florian e le Procuratie Nuove, il tutto ritrovato dall’autore Roberto Leggio all’interno di una copia della Voluttà della Vita di Emile Zola, in una bancarella di libri usati a Montecatini. Sull’autenticità del diario permangono comunque forti dubbi.


[1] Libro di incantesimi.

[2] Il padre di H. P. (Winfield Scott Lovecraft) e il nonno materno (Whipple Van Buren Phillips) erano iscritti alla Loggia “Tempio del Sepolcro Mistico” di Providence, nel Rhode Island.

[3] H. P. Lovecraft, Autobiografia: Qualche Notizia su una Non-Entità, 1933.

[4] H. P. Lovecraft, Il Richiamo di Cthulhu, 1928.

[5] R. Volterri e B. Ferrante, I Libri dell’Abisso, Eremon 2014, pp. 62-63.

[6] P. Pizzarri (esoterista), Necronomicon, Atanor 1993.

[7] Fratellanza istituita dal faraone Tutmose III sulle ceneri dei precedenti Ordini dei Mesniu e degli Djedi. Incentrata sul tempio di Hator a Serabit El Khadim (monte Horeb, Sinai), i suoi emissari contribuirono alla costituzione del gruppo dei Terapeuti ad Alessandria e degli Esseni a Qumran.

[8] Cfr. D. Marin, Cronache del Dominio, SoleBlu 2024, p. 164.

[9] Scoperta riportata dal quotidiano La Nazione il 12 maggio 1912.

[10] H. P. Lovecraft, La Città Senza Nome, 1921.

[11] R. Volterri e B. Ferrante, I Libri dell’Abisso, Eremon 2014, pp. 59-60.

[12] R. Volterri e B. Ferrante, I Libri dell’Abisso, Eremon 2014, pp. 40-41.

[13] Notizia riportata in Necronomicon – Il Libro Proibito di Howard Phillips Lovecraft, Fanucci 1994.

[14] R. Volterri e B. Ferrante, I Libri dell’Abisso, Eremon 2014, pp. 53-54.

[15] D. Marin, Appunti di Storia Proibita, SoleBlu 2022, #1.

[16] Come al solito invitiamo a non confondere la P^2 (P-Quadro) con la P2 (P-Due), loggia nazionale di più celebre (quanto infausta) memoria.

[17] Dal punto di vista della geografia antropica, il Polesine si identifica con la provincia di Rovigo; dal punto di vista della geografia fisica viene definito invece “Polesine” il territorio situato tra il basso corso dei fiumi Adige e Po fino al Mare Adriatico, il cui confine occidentale, indefinito, lo separa dalle Valli Grandi Veronesi.

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Un Chiarimento sulla Palestina

I social diffondono da qualche tempo l’affermazione secondo cui prima del ’47 non esisteva uno Stato Palestinese. Ecco, pur essendo corretta da un punto di vista formale, tale affermazione sottintende una menzogna divulgata a fini politici.

Prima del ’47 la Palestina era protettorato britannico, ma è vero che divenne tale in seguito agli accordi di pace della I guerra mondiale, per cui quel territorio veniva ceduto dall’Impero Ottomano. (In pratica era già terra britannica dal ’16 in seguito agli Accordi di Sykes-Picot.) L’Impero Ottomano (turco ed islamico) era la prosecuzione dell’Impero Selgiuchide (turco ed islamico) che aveva assorbito il precedente Impero Arabo (arabo ed islamico). Perciò ok, la Palestina non era uno Stato ma una Regione. Quindi? La Palestina è abitata dagli arabi dal 637 d.C., i quali sono rimasti l’etnia dominante anche dopo la conquista turca del 1071, e anche durante la permanenza non certo pacifica dei crociati (dal 1099 al 1291). Se affidassimo la Lombardia alla Francia, e solo a quel punto venisse occupata dall’Austria, sarebbe meno grave del caso in cui venisse occupata dall’Austria direttamente?

Purtroppo già nel ’17 con la Dichiarazione Balfour i Britannici promettevano quella terra al movimento sionista (guidato dal banchiere Lionel Walter Rothschild). Molti immigrati europei di fede ebraica iniziarono ad ottenere terreni in Palestina che venivano confiscati ai legittimi proprietari, con conseguente impoverimento e disoccupazione del popolo palestinese, la cui esasperazione si produsse nel massacro di Hebron del 23 agosto 1929. (Si noti che ai non-Ebrei era spesso vietato anche solo lavorare nei terreni confiscati.)

Mi dispiace che un certo razzismo di matrice sionista (in mancanza di argomenti) venga giustificato per mezzo della semantica.


Approfondisci la genesi della classe governante israeliana >>>


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A Proprio Agio con l’Insicurezza

A Proprio Agio Con L’Insicurezza

da Jack Kornfield (psichiatra), Il Cuore Saggio, Corbaccio 2021, pp. 411-414


La sicurezza è sostanzialmente una superstizione. In natura non esiste, i bambini non ne fanno esperienza totale. Alla lunga evitare i pericoli non è più sicuro di quanto non lo sia esporsi direttamente a loro. La vita è un’avventura da osare, oppure niente. [Helen Keller]


Un giorno Ajahn Chan sollevò fra le mani una bellissima tazza cinese: «Per me questa tazza è già rotta. Dato che conosco il suo destino, posso godermela pienamente qui e ora. E, quando è andata, è andata». Quando comprendiamo la verità dell’incertezza e ci rilassiamo, diventiamo liberi.

La tazza rotta ci aiuta a vedere al di là dell’illusione di avere il controllo delle cose. Quando ci dedichiamo ad allevare un bambino, a metter su un’impresa, a creare un’opera d’arte, a raddrizzare un’ingiustizia, ci esponiamo a una certa misura di fallimento come di riuscita. È un insegnamento feroce, questo. Emilee è un’ausiliaria sanitaria; l’ospedale dove lavorava in Kosovo è bruciato fino alle fondamenta, eppure lei ha ricominciato. Sa che il suo lavoro consiste nell’aiutare le persone ad attraversare la riuscita come il fallimento. Rosa ha perso il suo più promettente studente di matematica ucciso in una sparatoria fra bande; ne ha avuto il cuore spezzato ma non ha mai rimpianto di essere stata sua insegnante e ora insegna a molti altri, in sua memoria.

Possiamo perdere la nostra migliore opera di ceramica nella cottura; la scuola pilota che abbiamo avviato con tanta cura può chiudere; l’impresa che abbiamo avviato può colare a picco; i nostri figli possono sviluppare problemi che vanno al di là del nostro controllo. Se ci concentriamo solo sui risultati saremo devastati. Se invece sappiamo che la tazza è già rotta, possiamo dedicare al processo in corso il nostro meglio, possiamo creare ciò che sta a noi creare e poi fidarci del processo ben più vasto della vita stessa. Possiamo pianificare, prenderci cura, rispondere ai bisogni, accudire – ma non possiamo controllare. Facciamo invece un respiro e apriamoci a ciò che accade là dove ci troviamo. Passare dalla presa stretta al lasciar andare è un mutamento profondo. Come dice Shunryu Suzuki, «quando comprendiamo la verità dell’impermanenza e vi troviamo la nostra compostezza, allora ci troviamo nel nirvana».

Quando qualcuno interrogava Ajahn Chan sull’illuminazione o su quello che accade al momento della morte, o gli chiedeva se la meditazione l’avrebbe guarito dalla malattia di cui soffriva o se gli insegnamenti buddhisti possano essere praticati ugualmente bene anche dagli occidentali, lui sorrideva e diceva: «Non si sa bene, vero?» Chögyam Trungpa chiamò questa incertezza «assenza di terreno di base». Con la saggezza dell’incertezza, Ajahn Chan poteva semplicemente rilassarsi. Intorno a lui si respirava un’enorme sensazione di agio; lui non «tratteneva il respiro» né cercava di manipolare gli avvenimenti, ma rispondeva di volta in volta alla situazione del momento. Una monaca anziana occidentale abbandonò il monastero per «rinascere» come missionaria cristiana, e poi tornò al monastero a cercare di convertire i suoi antichi amici; molti si indignarono: «Ma come può fare una cosa simile?!» Confusi, chiesero l’opinione di Ajahn Chan; lui rispose con una risata: «Chissà, magari ha ragione». A quelle parole si rilassarono tutti. Eppure Ajahn Chan, nel mezzo dell’incertezza, era anche capace di agire: sapeva pianificare la costruzione di un grande tempio o fare da supervisore alla rete degli oltre cento monasteri fondati dai suoi monaci. Quando disciplinava i monaci che si erano comportati male sapeva essere deciso, esigente e severo. Intorno a ogni sua azione, comunque, c’era un senso di spazio; sembrava che un attimo avrebbe potuto voltarsi indietro, sorriderti – magari con una strizzatina d’occhio – e dirti: «Non si sa bene, vero?» Era una dimostrazione vivente del segreto della vita che descrive la Bhagavad Gita: «agire bene senza attaccamento per i frutti dell’azione».

 Si sviluppa la stessa fiducia espressa da Ajahn Chan ogni volta che la coscienza dimora in pace nell’eterno presente. «Da dove sto seduto», diceva lui, «non c’è nessuno che vada e nessuno che venga. Quando dimori in pace nella via mediana non c’è nessuno che sia forte o debole, giovane o anziano, nessuno che nasca o che muoia. Questo è l’incondizionato. Il cuore è libero». Gli antichi maestri zen la chiamano «liberazione della mente fiduciosa». Come si raggiunge questa saggezza? Come spiegano i testi zen, «Vivere nella mente fiduciosa significa non nutrire alcuna ansia per l’imperfezione. Il mondo è imperfetto. Invece di combattere per renderlo perfetto ci rilassiamo e dimoriamo in pace nell’incertezza. Allora possiamo agire con compassione e dare il meglio di noi, senza attaccamento per il risultato; allora possiamo entrare in ogni circostanza senza paura e con fiducia».

Quando Chas cominciò la pratica buddhista, la ditta di commercio telematico per cui lavorava era in difficoltà, il suo matrimonio gli sembrava spento, e lui pativa ancora le conseguenze di essere cresciuto accanto al padre sempre depresso. Si era rivolto alla pratica meditativa affinché l’aiutasse di fronte all’ansia per il futuro, all’insicurezza del suo matrimonio, alle tante volte in cui si sentiva collegato da sé stesso.

Chas aveva anche un senso del mondo profondamente mistico. Uno dei momenti più importanti della sua vita adulta fu un sogno su Katie, la figlia più piccola. A quattro anni Katie era stata ricoverata in ospedale per una meningite virale ed era andata in coma. Chas e sua moglie passavano la giornata accanto a lei; i dottori non erano certi delle sue possibilità di recupero. Dopo cinque settimane tutte uguali di infinita preoccupazione, Chas sognò la figlia che gli diceva: «Non preoccuparti, papà, va tutto bene». La mattina dopo, entrando nella stanza di Katie, la vide aprire gli occhi e sorridergli. Ora Katie è un’adolescente sana.

Chas aveva intravisto una verità: dietro a tutti i nostri piani c’è una grazia. Imparare a meditare risvegliò in lui questa fiducia; la pratica di consapevolezza lo sollevò dallo stress e gli fece cominciare a sentirsi il corpo e i sensi più aperti. In una sessione di meditazione raccontò di aver percepito il proprio corpo come un’alga laminaria, lunga e flessuosa, che fluttuava al di sotto della superficie ondosa. La sensazione di essere bloccato e pieno di ansia si era trasformata in momenti di interesse, curiosità e apprezzamento. Chas divenne meno preoccupato, più presente – più «succoso», si definiva lui. «Lasciar andare le mie paure è come togliermi un soprabito di ‘io’. Quando mi nascono pensieri e problemi che non riesco a risolvere, non mi si incollano addosso: dimoro tranquillo nella mente fiduciosa come un’alga nell’oceano». Ogni tanto Chas dice che se ne dimentica e allora torna a essere insicuro. La mente che si preoccupa prende il sopravvento: deve portare avanti il suo matrimonio? Deve continuare a lavorare in quel posto così incerto? Poi ricorda il sogno di sua figlia, allora si rilassa e dà fiducia al non sapere. «Per essere onesti, tutti i matrimoni e tutti i posti di lavoro sono insicuri!» dice.

Otto anni dopo, Chas è ancora sposato e lavora ancora in una ditta telematica, ora florida. La meditazione gli ha insegnato una fiducia che non è separata dall’insicurezza e dei paradossi della vita stessa.

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Lo Gnosticismo di Gesù di Nazareth

Benché vi sia una chiara derivazione dello Hieron du Val d’Or[1] dagli Elcasaiti (o Desposyni), ovvero dai familiari di Gesù di Nazareth, anche un’analisi superficiale della vita e della predicazione dello stesso è sufficiente a giustificare l’idea di un’infiltrazione, ad un certo punto, di elementi spuri. (Quanto alla sequenza di trasmissione succitata, annotiamo Elcasaiti > RosaCroce > Compagnia del S.S. > Aa > Hieron, con lo Hieron che nel 1934 “passa di mano”, viene snaturato e diventa P^2, tutt’ora attiva ed organizzata in Ur-Logge di respiro internazionale.[2] Dettagli in D. Marin, Appunti di Storia Proibita, #1.)

Il dualismo dello Hieron era quello tipico dei Manichei, e benché Mani (vero nome Shuraik, 216-277 d.C.) fosse in origine elcasaita, egli fu certamente “deviato” dallo Zoroastrismo persiano. Se il dualismo di Mani supponeva un dio (buono) dello spirito e un dio (malvagio) della materia, uno contrapposto all’altro – al punto che l’uomo pio disprezzerebbe il proprio corpo ed eviterebbe quanto più possibile di riprodursi –, di tutt’altra natura doveva essere il dualismo degli Elcasaiti. Diversi episodi della storia evangelica esprimono infatti l’apprezzamento di Gesù per tutto quanto desse gioia all’essere umano, non per ultimi il cibo e il buon vino.

Il dualismo di Gesù era probabilmente più vicino alla concezione platonica di “psiche” e “daimon”. Platone, che come Orfeo e Pitagora aveva preconizzato l’avvento del Cristo (cfr. D. Marin, Appunti di Storia Proibita, #5), suggerisce l’idea che, prima di venire al mondo, ciascuno di noi abbia la possibilità di scegliere una “grande imago”, un disegno, che dovrebbe poi realizzare nel corso della vita.

«Nel momento in cui entriamo nella matrice, nell’utero materno, noi però dimentichiamo la nostra scelta ed è compito del “daimon” che, per tramite delle Moire, si unisce a noi prima della nostra nascita, di ricordarci la nostra grande immagine, il disegno della nostra vita, il perché siamo giunti sulla Terra. Egli è dunque il custode del nostro destino, e ci sprona ad esprimere i nostri talenti e le nostre virtù per raggiungere il vero Bene, che è Bellezza e Verità. […]

«Il “daimon” è il depositario delle nostre inclinazioni e conosce gli strumenti che ci servono per sfruttarle. Esso fa sentire la sua voce fin da subito, persino nel modo in cui i nostri genitori ci hanno concepito, nel modo in cui siamo venuti al mondo, nei giochi della nostra infanzia, nei sogni onirici e nei nostri desideri e passioni. Perciò dobbiamo prestare orecchio al linguaggio in cui si esprime, cercando di evocare ricordi, essere consapevoli anche dei desideri più reconditi, il che non significa tentare di realizzarli a tutti i costi, ma riconoscerli e sapere che sono dentro di noi.

«Per intendere la voce del “daimon” dobbiamo fare attenzione ai segni interiori ed esteriori, i secondi riflesso dei primi, senza giudicare, analizzare, riflettere. La buona riuscita è strettamente legata all’assenza di paura: più c’è ansia e senso di colpa, più si ha bisogno di giudicare, analizzare gli avvenimenti nel tentativo di misurarli, prevederli, controllarli.

Lasciarsi andare è il modo migliore per intuire il linguaggio del “daimon”. Il nostro “spirito guida” ci chiede una prova di fede e, se ci affidiamo, ci conduce impeccabilmente e infallibilmente verso la realizzazione della nostra missione, a volte persino senza sforzo, trasportandoci oltre ogni ostacolo.

Attraverso le piccole e grandi cose che ci accadono – un meraviglioso tramonto, un innamoramento, ma anche una malattia, un tradimento, il volo di un uccello che attraversa il nostro spazio visivo – possiamo sentire la sua voce». (Cfr. S. C. Williams, Daimon, Piemme 2022, pp. 8-9.)

Presumibilmente il dualismo degli Elcasaiti non riguardava la distinzione tra spirito e materia (la quale, tra l’altro, sulla base della fisica quantistica sarebbe un prodotto unicamente “percettivo” dello spirito), ma indicava la separazione alla nascita tra il nostro “daimon” e la nostra “psiche”, la cui riunificazione può tuttavia ottenersi attraverso l’assimilazione della gnosi, ovvero la capacità di riconoscere segni esteriori e sensazioni interiori in armonia con il nostro progetto prenatale.

A questa gnosi si riferiva presumibilmente lo stesso Gesù (in vari passi dei vangeli sinottici) laddove accennava ad una conoscenza superiore riservata al suo cerchio più ristretto, mentre per gli altri auditori si sarebbe espresso in parabole.

Chi Sono i Leader di Israele

Agli albori dell’età moderna, l’impatto con Roma e la successiva predicazione del Nazareno provocarono una netta spaccatura nell’élite sacerdotale di Israele. In particolare, dell’insegnamento di Gesù faceva discutere il tema dell’uguaglianza delle razze: prima di lui la parola “uomo” od “umanità” dei testi biblici era intesa in riferimento esclusivo agli Ebrei, mentre per indicare gli homo sapiens delle altre etnie era in uso il termine “goyim”, tradotto spesso con “gentili”, ma che intendeva qualcosa di semi-umano o comunque più vicino all’animale. Pertanto non c’era contraddizione tra il 5° comandamento “non uccidere altri uomini” e l’ordine di Jahve di sterminare i Palestinesi dell’epoca mosaica (i Cananei) per occuparne la terra.

La spaccatura si formalizzò in due passaggi: gli accordi tra (San) Paolo e Seneca (intorno al 60 d.C.), e quelli tra Giuseppe Flavio e Vespasiano (nel 70 d.C.). Con questi patti, coloro tra i sacerdoti che vi aderivano si impegnavano a porre la loro scienza al servizio di Roma, sfruttando in particolare l’insegnamento di Gesù (adattandolo alla ragion di Stato ed al gusto pagano) per la costituzione di un nuovo culto (il Cristianesimo) che servisse all’accettazione da parte delle masse di una classe governante il cui dominio doveva essere sopportato con gioia in virtù di una ricompensa nell’aldilà. Penetrati nella nobiltà romana (adottati dalla gens flavia e dalla gens anicia), questi sacerdoti arrivarono a far eleggere uno di loro (Flavio Costantino, nel 306 d.C.) al soglio imperiale, e attraverso di lui ad ottenere il riconoscimento ufficiale della nuova religione (Editto di Milano, 313 d.C.). Come nobiltà nera gli “ebrei del patto” divennero inoltre gli elettori del papa. Per quasi 2.000 anni gli “Ebrei del Patto” mascherarono le proprie origini entro la nobiltà e la Chiesa cristiane, spostando più tardi il proprio centro da Roma ad Aquisgrana, dove le loro famiglie ottennero nuovo prestigio con la nomina imperiale di Carlo Magno Anicio Flavio (discendente di Costantino, nell’800 d.C.).

Chi invece non aderì ai patti, lasciò Gerusalemme per Babilonia (poi Baghdad), in cui dai tempi dell’esilio (VI sec. a.C.) sopravviveva una prolifica comunità ebraica al sicuro dalle ingerenze di Roma. Fecero eccezione i famigliari dello stesso Gesù (gli Elcasaiti o Desposyni), che dopo l’omicidio di Giacomo (parrebbe per ordine di Paolo[3]) si spostarono prima ad Alessandria e da qui in Calabria e nella zona di Lucca. Assumendo la sigla di “RosaCroce”, nel XII secolo trovarono un nuovo centro in Renania. Sebbene in alcuni testi gli Elcasaiti si definissero “cristiani”, essi intendevano il cristianesimo come una nuova mentalità da adottare all’interno dell’ebraismo, in cui la morte e resurrezione del loro profeta era da intendersi allegoricamente, mentre l’idea di un “popolo prediletto” veniva sostituita da quella di “creatura prediletta”, concependo l’intera umanità sullo stesso identico piano.

Il gruppo di Babilonia si spostò invece nel 768 d.C. in Settimania (oggi Linguadoca, Francia), dove Pipino il Breve concesse loro un principato semi-autonomo a patto che si impegnassero a far da cuscinetto contro gli Arabi di Spagna. Il primo principe di Settimania fu Teodorico Makir, figlio del rabbino di Baghdad Yehuda Zakkai, al quale Pipino concesse in sposa la sorella Aude.

Negli anni gli “Ebrei del Patto” non risparmiarono angherie contro i propri consanguinei, compresi tutti coloro che non erano a conoscenza del patto e che – nel legittimo desiderio di appartenere ad una comunità – non avevano altra scelta se non rivolgersi al gruppo di Babilonia, l’unico a mostrarsi apertamente ebraico. A questi nel tempo si sarebbero aggiunti gli Ebrei divenuti tali per conversione, la maggior parte di origine kazara.

Alcuni indizi suggeriscono perfino un coinvolgimento degli E.d.P. nell’ascesa del nazismo e nell’organizzazione dei campi di sterminio. Ma anche limitandoci alle età precedenti, non possiamo scordare i vari pogrom, gli esili e le ghettizzazioni che si sono protratti dal Medioevo alla 2a Guerra Mondiale.

Solo dopo il nazismo, gli “Ebrei del Patto” sono tornati a dichiararsi “ebrei”, emergendo con certi cognomi che conosciamo bene e che si collocano (insieme ad altri) ai vertici del sistema bancario mondiale. Funzionale allo scopo è stata l’applicazione di un’accurata politica matrimoniale con i membri di una “quinta colonna” per mezzo della quale gli E.d.P. avevano mantenuto degli infiltrati a Babilonia.

Anche escludendo una loro responsabilità diretta, è evidente come gli “Ebrei del Patto” abbiano sfruttato lo stato di spirito prodotto dall’olocausto per ottenere senza sforzo la ricostituzione dello Stato d’Israele, del quale hanno assunto la guida politica, adottando per la seconda volta un programma di genocidio verso i Palestinesi. Il popolo praticamente non se ne è accorto, e ancora oggi non ha la minima idea che i suoi leader rappresentino quella stessa nobiltà europea che gli ha causato secoli di sofferenza.[4]

La Stella di Davide

Ai tempi dell’antico Israele, la Stella di Davide Non era un simbolo del popolo ebraico. Divenne nota al “grande pubblico” solo intorno al 1800, quando il banchiere Mayer Amschel Rothschild la fece dipingere sulla facciata della propria casa a Francoforte e la adottò come simbolo della propria famiglia. Prima era limitata a circoscritti ambiti esoterici, e per pratiche non proprio rispettabili. Dopo la seconda guerra mondiale, considerato l’impegno dei Rothschild alla causa sionista, evolse nel simbolo dell’intera nazione ebraica.

Curiosamente in alcuni passi biblici (come Amos 5, 26) lo stesso Jahweh proibisce l’uso della Stella a sei punte. Il motivo è che quel tempo la Stella a sei punte era simbolo del dio fenicio Moloch (che tribù differenti chiamavano Refan o Chiiòn), tristemente famoso per l’usanza di sacrificargli i primogeniti nella speranza che diventassero gli “angeli custodi” della famiglia. Secondo il Testamento di Salomone, lo stesso re di Israele in un periodo di debolezza spirituale avrebbe impresso la Stella sul proprio anello per controllare il demone Belzebù di modo che questi e le sue schiere edificassero il Tempio di Gerusalemme. A parte il fatto che Salomone era figlio di Davide, non vi è alcun legame tra la stella e il sovrano a cui viene nominalmente accostata.

Aggiungiamo a quanto esposto il tradizionale incontro annuale al Bohemian Groove che coinvolge presidenti, banchieri e affaristi (perlopiù dichiaratamente sionisti) nei giorni centrali di agosto, il cui “spettacolo” principale è una bizzarra cerimonia propiziatoria ai piedi della statua di Moloch. E come non ricordare la statua di Moloch esposta (tra l’autunno del 2019 e la primavera del 2020) all’ingresso del Parco Archeologico del Colosseo?

Abbiamo abbastanza indizi a sostegno della ricostruzione precedente a proposito degli “Ebrei del Patto”, i quali non avrebbero molto da spartire con la popolazione sulla quale oggi governano.[5]

Non abbiamo idea del perché gli “Ebrei del Patto” abbiano ripescato il mito di Moloch, diffuso tra i Fenici ma le cui origini si devono probabilmente ricondurre ai Cananei. Certamente però lo portarono con sé dentro il Cristianesimo (il Cristianesimo, si badi, non l’insegnamento – reale – di Gesù). Chi è infatti il dio dei Cristiani se non l’apoteosi di Moloch, che sacrifica il proprio primogenito a sé stesso affinché diventi il custode della famiglia umana?

Morte e Resurrezione

Con riferimento ai miei articoli precedenti (in particolare al #5), riprendiamo l’ipotesi motivata secondo cui l’Amore, per manifestarsi, necessiterebbe di un Universo fuori-equilibrio (in altre parole: la cui entropia sia lontana dal massimo, ovvero in cui la sofferenza non sia nulla). Ciò vuol dire che l’Amore dovrebbe “scendere” nella materia.

A tal fine la Coscienza Divina si “incarna”, ma così facendo perde contatto con la sua “memoria immateriale”, scordando tra l’altro la sua natura e la ragione della sua “discesa”. Quest’ultima viene tuttavia trasmessa nell’Universo Materiale dal “daimon” di ciascuno, ma a tal fine l’individuo deve “morire”, ovvero incontrare la propria “ombra”, la cui conoscenza e accettazione lo pone in sintonia con la trasmissione del “daimon”. Pur non potendo – neppure a quel punto – recuperare i propri ricordi, egli diviene almeno sensibile al proprio flusso esistenziale (il piano che egli stesso ha concepito per la propria esistenza materiale prima di incarnarsi). L’individuo comprende in particolare se una determinata azione o un determinato progetto appartengono al flusso sulla base delle proprie sensazioni interiori e dei segni rivelatori (che egli impara a discernere dal caso). A quel punto può sostenere di avere risvegliato lo spirito nella materia, ovvero di essere, in un certo senso, risorto.[6]

L’interpretazione letterale dei vangeli sinottici sosterrebbe che Dio si sarebbe incarnato nel Nazareno, e che morendo per poi risorgere avrebbe liberato l’Uomo dalla colpa del peccato originale, salvando di conseguenza la sua anima. Tuttavia, in una concezione di Dio quale entità onnipotente esterna all’Uomo, se il Creatore avesse voluto semplicemente scagionare l’Uomo da un Reato, avrebbe disposto certamente di un sistema più rapido ed efficacie, tanto più che la Storia non rileva alcuna soluzione di continuità tra il prima e il dopo gli anni fatali.

È più logico pensare che la descrizione della morte e della resurrezione di Gesù sia stata soltanto l’ultima delle parabole trasmesse dagli evangelisti. Ogni uomo è un’espressione della Coscienza Divina Incarnata. La Croce è universalmente il simbolo dei 4 Elementi, o in altre parole della dimensione materiale. Gesù si presenta quindi come rappresentante della Coscienza Divina che è discesa nella materia (si è posta sulla Croce), e morendo (incontrando la sua “ombra”), ha potuto risorgere, ovvero ha potuto mettersi in contatto con il proprio “daimon” e afferrare le redini della propria vita. In questo modo, Gesù non avrebbe salvato l’Uomo, ma avrebbe consegnato ad ogni uomo gli strumenti con cui salvarsi da solo.[7]

Questo grande maestro, il cui insegnamento così interpretato non si discosta molto da altri precedenti (ad esempio il buddismo), sarebbe pertanto vissuto oltre il suo magistero in Palestina. Certo gli accordi tra l’élite sacerdotale israeliana e il gotha romano gli imponevano di andare altrove, sicché dovremmo considerare seriamente la tradizione che vede la continuazione del magistero di Gesù prima in Kurdistan[8], poi in India ed infine in Giappone, come registrato nel Rapporto Notovitch[9] e nei Documenti Takeuci[10].

{Postilla, Il Piano di Paolo}

Se la ricostruzione di Holger Kersten (La Vita di Gesù in India) è buona (e io ritengo che in linea di massima lo sia), ne conseguono altre possibilità non espresse dall’autore:

Un paio d’anni dopo la crocifissione, Paolo è sulle tracce di Gesù di cui si mormora possa trovarsi a Damasco sotto la protezione della locale comunità essena. Una volta sul posto, Paolo finge di smarrire il proprio impeto persecutorio, e dopo un anno di valutazione riesce a farsi ammettere alla comunità.

Nonostante le rimostranze del discepolo Anania, Gesù si convince infine del rabbonimento di Paolo e decide di incontrarlo per affidargli la diffusione del suo messaggio ai gentili.

Paolo compie la sua prima missione in Arabia, e a tre anni dal suo incontro con Gesù si reca a Gerusalemme per presentarsi a Simon Pietro e Giacomo, quest’ultimo nominato vescovo della Città Santa. (Qui si suppone che “Giacomo il Maggiore” e “Giacomo il Giusto” siano la stessa persona.) Gesù si trova probabilmente già a Nusaybin (presso Edessa), da cui proseguirà verso l’India.

Nel 41 d.C. Paolo incontra Seneca in Corsica ed insieme al filosofo incomincia a progettare la “nuova religione”.[11] Paolo ottiene appoggio militare segreto sul territorio palestinese.

Nel 44 d.C., dopo aver predicato in Siria e in Cilicia, Paolo torna a Gerusalemme apparentemente per portare una colletta della Chiesa di Antiochia alla Chiesa di Gerusalemme, motivata dalla predizione di una carestia per voce di un cristiano di nome Agabo. Prima di tornare ad Antiochia e programmare nuovi viaggi, Paolo ordina ai propri sgherri di uccidere Giacomo. Pietro diviene il nuovo vescovo di Gerusalemme, registrato dagli annali come “Simone I”.

Paolo torna a Gerusalemme nel 49 d.C. (per il Concilio) e nel 58 d.C. (in conseguenza del ben noto “Incidente di Antiochia”), e la sua presenza in quest’occasione potrebbe collegarsi alla morte di Pietro. Una folla inferocita lo accusa di omicidio e lo fa arrestare. Sfruttando però la propria cittadinanza romana, Paolo riesce ad ottenere l’estradizione per Roma. Nuovo vescovo di Gerusalemme diviene Giuda Barsabba, figlio di quel Giuseppe Barsabba che i Vangeli annotano tra i “fratelli” di Gesù e che probabilmente coincide con il “bandito” Barabba.

Riunitosi a Seneca, nel 65 d.C. Paolo viene accusato insieme a lui di aver partecipato alla Congiura dei Pisoni e Nerone ne decreta la condanna a morte per decapitazione. Il piano della “nuova religione” sarà comunque ripreso dal giovane discepolo di Paolo, Yosef ben Matityahu, meglio noto ai posteri come “Giuseppe Flavio”, che troverà la buona disposizione dell’imperatore Vespasiano.[12]

{/Postilla}

Un Pensiero per la Pace

Negli ultimi giorni[13] ho in parte perso di vista il mio compito quale essere umano, ovvero contribuire alla concordia e alla realizzazione dei miei fratelli. Certo non era facile restare impassibili alla violenza dello scenario medio-orientale, e altrettanto alle facili prese di posizione delle tifoserie dei socialmedia, pro-Israele o pro-Palestina, spesso infarcite di messaggi d’odio.

Al di là della ricostruzione storica che ho proposto nei miei post, risultato di oltre 10 anni di studio sui temi dei poteri forti, dell’araldica e delle società segrete, è doveroso tenere a mente alcuni fatti indiscutibili.

1. Le persone coinvolte negli eventi, che hanno perduto o perderanno la serenità, la salute psico-fisica o addirittura la vita, sono persone semplici, che cercano come tutti noi di godersi la giornata, di arrivare a fine mese e di avere dei buoni amici. Pochissimi di loro sono responsabili di quanto è accaduto e accadrà, siano essi Israeliani o Palestinesi, e anche se alcuni sostengono di odiarsi l’un l’altro, la loro affermazione è solo il frutto di ignoranza, sofferenze famigliari e propagande politiche che in tutto il mondo hanno facile presa su chi non ha il tempo si fermarsi ad analizzare gli eventi con la necessaria razionalità. Il popolo non ha colpe;

2. Anche se i politici sono innegabilmente colpevoli, anche se il sionismo non è meno colpevole del fascismo, abbiamo tutti il dovere di galleggiare al di sopra di tale ovvia constatazione. La sofferenza che ci viene offerta, benché sia nostro dovere contenerla, sarà comunque uno strumento di crescita ed evoluzione della razza umana. I “cattivi” sono dopotutto un mezzo nelle mani di una Coscienza Cosmica che io ritengo fondamentalmente amorevole. Se il mondo fosse equilibrato, l’Amore non avrebbe alcun modo di manifestarsi. I “cattivi” sono poi anch’essi il frutto della propria storia, e della Storia con la “S” maiuscola che li ha preceduti e che ha permesso alla loro classe di costituirsi. E non c’è alcuna possibilità che un “cattivo” sia felice, per quanto ricco o potente sia. Presentatemi un cattivo felice e rivedrò la mia opinione. Per ora, per quanto viaggino più di me, per quanto scopino più di me, per quanto godano di adorazioni e servitù, io continuo a sentirmi più fortunato di loro. Io non li odio. Non odio i Rothschild né qualunque altra famiglia. Sono solo lontani dalla comprensione. Chissà mai che qualcuno di loro si penta, come accadeva a Devil-Man nel manga di Go Nagai.

Anti-Sionismo

Quando mi definisco “anti-sionista”, non intendo assolutamente negare il diritto al popolo ebraico di esistere o di professare il proprio credo. Ciò sarebbe nell’accezione moderna del termine (per quanto impropria dal punto di vista semantico) “anti-semitismo”.

Capisco che dopo il dramma dell’olocausto, gli Ebrei desiderassero a ragione di ricostituirsi come comunità, per esser certi di trovare comprensione nei propri simili ed elaborare il lutto. Ritengo però una pessima scelta farlo a discapito di altre comunità umane che hanno pari diritto ad esistere. Gli Ebrei avevano abbandonato in massa la Palestina dal 135 d.C., e il territorio era arabo dal 637 d.C.. Inoltre il 99,9% degli Ebrei oggi sono discendenti dei Kazari convertiti nell’VIII secolo d.C., che non hanno legami di sangue con la Palestina (per questo parlare di semiti e anti-semitismo è improprio). Chiedere che un territorio venga ceduto dai suoi abitanti, che avranno casa, poderi e ricordi su di esso, è improponibile. Averlo imposto con la forza ha inevitabilmente prodotto odio, guerra e morte, e sarebbe ingenuo pensare che non si fosse previsto. Sarebbe stato più logico assegnare un territorio agli Ebrei negli Stati Uniti o in Etiopia, dove la comunità ebraica era già strutturata e aveva un proprio equilibrio prima della 2a guerra mondiale. Tornare per forza in Palestina in nome di un muro, quello che viene detto “Muro del Pianto” e che è l’unica parete del Tempio rimasta in piedi dopo l’ingresso dei Romani a Gerusalemme (nel 70 d.C.), non è niente più che un capriccio immaturo. Sono certo che se ci si fosse mossi per mezzo del dialogo e non dell’esproprio, i Palestinesi non avrebbero proibito a nessuno di visitare Gerusalemme e il suo muro.

Oggi però i fatti sono fatti, e non possiamo vivere in un mondo che non sia quello reale. Comprendiamo la natura dell’odio palestinese e israeliano, e operiamo per lenirlo, non per alimentarlo. Cerchiamo di far capire che ogni azione violenta è stata il frutto di un’errata comprensione, di sé stessi e degli eventi, di propaganda, povertà ed ignoranza. Predichiamo il perdono. Invitiamo ad abbandonare le credenze rigide e ad ammettere la possibilità di aver sbagliato e di sbagliare. Invitiamo ad ammorbidire le religioni, a depurarle di tutto ciò che impedisce una sana discussione. La religione dovrebbe essere un mezzo per la ricerca della verità, non per imporre qualcosa senza addurre motivazioni. Nessun Dio potrebbe metterci nella situazione imbarazzante di dover imporre agli altri qualche cosa che nemmeno noi comprendiamo.

Togliete le bandiere dai vostri profili. Accettiamoci come uomini, come fratelli. E stasera al bar, avvicinate il vostro nemico per offrirgli una birra. Capirete che l’odio è solo l’espressione impacciata di un dolore profondo. Comprendetelo e sanatelo, e anche l’odio se ne andrà.


[1] Società Segreta istituita nel 1873 a Paray-le-Monial dal gesuita Victor Devron e dal barone russo-spagnolo Alexis de Sarachaga. Cfr. D. Marin, Appunti di Storia Proibita, #1.

[2] Non si confonda la P^2 (P-Quadro) con la P2 (P-Due) di Licio Gelli. La seconda era al più il “braccio” italiano della prima, avente lo scopo specifico di porsi ad intermediario tra gli uffici di GLADIO (l’operazione stay-behind della CIA in Italia), le organizzazioni terroristiche (Brigate Rosse, Prima Linea, Lotta Continua, NAR, Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo) e la criminalità organizzata (in particolare Cosa Nostra).

[3] La versione secondo cui il mandante dell’omicidio di Giacomo sarebbe stato Paolo di Tarso è riportata in un manoscritto siriaco custodito nell’archivio del Duomo di Vercelli e tradotto da Luigi Leante che lo include ne Il Crocifisso di Galatone (Congedo, 1997).

[4] Il sottinteso qui è che la parte più influente della nobiltà europea sarebbe discesa dai Flavi e dagli Anici di adozione. Cfr. Flavio Barbiero, Le Radici Giudaico-Cristiane dell’Europa, Profondo Rosso 2018.

[5] Vi è un diffuso fraintendimento terminologico sulla base del quale gli “Ebrei del Patto” vengono assiduamente quanto erroneamente indicati come “Ebrei Askhenaziti”. Chiariamo perciò quali sono i contorni di quest’ultima categoria. Gli Askhenaziti sono semplicemente gli Ebrei Tedeschi (Askhenaz, secondo la Bibbia, era un discendente di Jafet che guidò i Germani dalla Scizia al Nord Europa). Essi discendono da quei Kazari che si convertirono all’ebraismo nell’VIII secolo d.C. e non hanno legami di sangue con la Palestina. Oggi gli Askhenaziti sono per lo più brava gente che lavora per arrivare a fine mese, e sono innocenti, così come lo sono gli Arabi Palestinesi. Anche i Sefarditi (Ebrei di Spagna) sono per lo più Kazari, e anche loro sono innocenti. I leader sionisti (quali ad esempio i Rothschild) al contrario non sono Kazari; un’attenta disamina della loro genealogia (riportata nel solito Appunti di Storia Proibita, #1) riconduce chiaramente all’Israele biblico e alla famiglia davidica. Essi vennero dalle scuole teologiche di Sura e Pumbedita di Babilonia (Baghdad) fino in Kazaria per coordinare la conversione del popolo ordinata dal Khagan Bulan. Potremmo dire che ottennero “cittadinanza” kazara, ma non che fossero originari della regione. In linea di massima ogni famiglia coinvolta nel “Patto” può essere ricondotta ad una famiglia sacerdotale dell’Israele biblico.

[6] Per logica, infatti, l’accettazione del “flusso” non può prescindere dall’accettazione dell’“ombra”. In altre parole, per poter “risorgere” è necessario prima “morire”.

[7] È inoltre sospetto che il tema di una morte e di una resurrezione in senso fisico sia stato tanto caro alle gerarchie romane ma non altrettanto agli Elcasaiti che per logica avrebbero dovuto manifestare una maggiore vicinanza emotiva alle esperienze straordinarie del loro congiunto.

[8] La tradizione di un magistero di Gesù in Kurdistan è viva ancora oggi presso i Bektashi dell’Anatolia, i Nusairi della Siria e gli Yazidi dello stesso Kurdistan. Tali comunità, registrate usualmente nel più ampio gruppo dei Musulmani Alawiti, sono in verità quanto resta delle comunità giudaico-cristiane delle stesse zone che rifiutarono di conformarsi alla dottrina di (San) Paolo. In particolare, dopo aver lasciato la Palestina, Gesù si sarebbe stabilito nella città di Nisibis (oggi Nusaybin), poco lontano da Edessa e dal sito megalitico di Gobekly Tepe. Curiosamente, fu in un monastero di Nusaybin che il filosofo armeno Georges Ivanovič Gurdjieff avrebbe appreso i principi della Quarta Via. Lo stesso Gurdjieff sosteneva che il suo insegnamento rientrasse nel novero della gnosi trasmessa all’interno delle prime comunità cristiane. Il centro di tale insegnamento era il cosiddetto “Ricordo del Sé”, che salvo la differenza di termini coincide pienamente con la “consapevolezza” che si pone ad obiettivo delle pratiche meditative buddiste ed induiste. Ciò conferma ulteriormente il legame tra Gesù e l’India. Cfr. Holger Kersten, La Vita di Gesù in India: La sua vita sconosciuta prima e dopo la Crocifissione – La verità sulla Sacra Sindone, Verdechiaro 2020, pp. 153-156; Diego Marin, Appunti di Storia Proibita, SoleBlu 2022, #7 “Gurdjieff e l’Europa”.

[9] Cfr. Holger Kersten, La Vita di Gesù in India: La sua vita sconosciuta prima e dopo la Crocifissione – La verità sulla Sacra Sindone, Verdechiaro 2020.

[10] Cfr. Kosaka Wado (a cura di), Takeuchi Documents I, Lulu 2017; Kosaka Wado (a cura di), I Documenti Takeuci 2, Lulu 2017; Kosaka Wado (a cura di), I Documenti Takeuci 3, Lulu 2018; Michiyo Miwa (a cura di), I Documenti Takeuci 4, Lulu 2019.

[11] Secondo la tradizione orale, Paolo avrebbe costruito un monastero e una chiesa nel villaggio corso di Ghjunchetu (it. Giuncheto) prima di continuare il suo cammino verso l’Africa. Curioso che di questo viaggio in Africa non vi sia traccia né negli Atti degli Apostoli, né nelle Lettere di Paolo stesso, come se si fosse ritenuto opportuno depennarlo. Vi sono tuttavia indizi che riconducono a Paolo le famiglie italiane dei Sauli (Lucca-Genova) e dei Borghese (Siena-Roma).

[12] In merito al legame tra (San) Paolo e Giuseppe Flavio, si consulti Diego Marin, Gli Eredi di Atlantide, SoleBlu 2022, pp. 192-195.

[13] Il riferimento è agli attentati di Hamas in Israele del 7 ottobre 2023 e alla ritorsione dell’esercito israeliano sulla popolazione dei Gaza nei giorni immediatamente successivi.

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I 5 Petali di Orfeo

Orfeo, Gran Maestro dell’Ordine di Antares, formulò il suo Insegnamento dei 5 Petali ad Atlantide in un momento imprecisato della sua gloriosa storia. Come trovate sia su Platone nel Baltico che su Cronache del Dominio, la natura simbolica dei “9.000 anni” di Platone è stata dimostrata incontrovertibilmente, mentre da altre fonti si può dedurre l’estensione del periodo atlantideo dal 5.000 a.C. circa (fondazione) al 2.193 a.C. (sconfitta nella guerra contro i Greci guidati dall’Atene-baltica, oggi Karlskrona). La nazione, costituita inizialmente nello Jutland, si era estesa progressivamente alla Pomerania (compresa l’isola di Rügen che ne ospitò la capitale), alla Scandinavia meridionale e alle Sette Isole del Mare d’Occidente (tra cui l’Islanda, la Groenlandia e Baffin). Quando i Celti e i Germani (originari della Scizia) raggiunsero le terre del nord europeo nel 2.756 a.C., assorbirono l’insegnamento di Orfeo nel loro “Seiðr”, ricordando il maestro con il nome di Zalmoxis.

Non è rimasta precisa memoria dell’Insegnamento dei 5 Petali, ma vi sono indizi sulla sua somiglianza con il più recente pensiero buddista. Abbiamo perciò proposto una sua ricostruzione, attingendo anche al saggio esperienziale di G. Gotto Profondo Come il Mare, Leggero Come il Cielo.


I 5 Petali di Orfeo

1° Petalo: Non azione, primo significato. La più grande difficoltà quando si è in attesa è restare fermi. Seduti ad un tavolo, se non stiamo bevendo né parlando, se siamo soli, ci sentiamo in imbarazzo. Lo stesso in fila alle poste o in qualunque luogo che non sia appositamente concepito per la riflessione o la preghiera. Da un lato temiamo il giudizio degli altri, verso la nostra solitudine o verso il nostro sguardo che potrebbe apparire indagatore e inopportuno. Oppure verso la nostra inattività, talvolta tradotta in pigrizia od irresponsabilità. Peggio se non riusciamo ad ascoltare e ad accettare i nostri pensieri, se dobbiamo per forza sfuggirgli. Il che equivale a non accettare la nostra situazione presente, l’unica peraltro che esiste per davvero e dalla quale dobbiamo inevitabilmente cominciare per migliorare la nostra esistenza. Perciò rigiriamo le dita, cerchiamo un giornale, facciamo scrolling compulsivo sul telefonino, ordiniamo da bere anche se non ne abbiamo voglia. Nessuna delle due ragioni è nobile. Il timore del giudizio altrui nasce spesso dalla nostra abitudine al giudizio, e comunque ci costruisce una gabbia tutt’intorno che placa la nostra iniziativa ogni volta che abbiamo il sospetto di non soddisfare le aspettative della società, della famiglia o del nostro gruppo sociale. Placare la nostra iniziativa (al pari di costringerci ad agire controvoglia) è la principale fonte della nostra sofferenza. Infine, nell’altro caso, rifiutare i nostri pensieri e la realtà delle cose, ci preclude ogni possibilità di sviluppo e di realizzazione. E la non realizzazione del proprio potenziale è, in ordine di importanza, la seconda fonte della nostra sofferenza. Dobbiamo perciò accettare ed imparare a godere della pace e della solitudine quando ci si presenta l’occasione, senza rifiuto né eccesso.

1° Petalo: Non azione, secondo significato. «Praticare la non-azione significa anche imparare a fare un passo indietro. Non tutto quello che accade intorno a te richiede una tua reazione. Osserva attentamente le situazioni che si vengono a creare e, se il tuo intervento non è strettamente necessario, non agire. In questo modo non sarai sempre distratto e stressato. Potrai concentrarti su quello che conta davvero. Non-agire significa inoltre evitare di farti coinvolgere in ogni discussione, ogni problema, ogni situazione. La tua vita si complica terribilmente quando vuoi aiutare chi non vuole farsi aiutare, consigliare chi non ha chiesto consiglio, risolvere problemi che non puoi risolvere. Concentrati su te stesso, sulle tue domande senza risposta» [Gotto 2023, p. 165].

2° Petalo: Non desiderio. «Il non-desiderio conduce a non avere sempre così tante aspettative su tutto ciò che fai. Le persone non sanno cosa vogliono perché vogliono troppo. E vogliono che questo “troppo” sia perfetto. Ma le relazioni perfette non esistono. Non esistono lavori, luoghi e situazioni perfette. Quindi, rilassati. Non puoi sapere se quella serata con quella ragazza andrà bene, se quell’esame andrà male, se il tuo cane avrà fatto il bravo o ti avrà distrutto la casa mentre eri al lavoro. E va bene così. Osserva le tue mille preoccupazioni sul futuro: che cosa sono se non illusioni? D’altronde, la stragrande maggioranza delle cose che ti preoccupano poi non si realizzano. La vita non è l’immagine mentale che crei del futuro. La vita è qui e ora» [Gotto 2023, p. 165]. Considera inoltre che sul futuro non hai controllo, e non ha alcun senso preoccuparsi di qualcosa che non è possibile controllare. Fai quello che puoi senza essere maniacale, usa precauzioni ragionevoli, ma non cadere nell’ossessione. Quando ti accorgi che per controllare qualcosa stai rinunciando a vivere, fermati e lascia che le cose vadano come devono andare. Stare ora all’inferno per paura di finirci in futuro è paradossale. Certo, le compagnie assicurative e le campagne politiche aggressive tentano di convincerti che firmando una polizza o rinunciando ad una fetta (spesso non trascurabile) della tua libertà tu possa ottenere il controllo (o la scurezza) totale; ma è una menzogna, salvo che tu non ti abbassi a barattare la tua vita improntata sulla realizzazione del sé con un surrogato impostato sul principio stimolo-risposta, rinunciando ad ogni estrosità e accettando (nonostante il controllo) di permanere nella sofferenza. È infine importante avere sogni ed obbiettivi, ma non dobbiamo sceglierli con l’idea di accettare la sofferenza adesso nella convinzione di trovare la felicità ad obbiettivo raggiunto. Anche trascurando la possibilità di fallire, la felicità generata dal successo è effimera e dura quanto un battito di ciglia. L’importanza del sogno sta tutta nel cammino che esso comporta, ed è su questa base che dobbiamo sceglierlo, affinché ci sproni ad un viaggio piacevole. Dobbiamo scegliere in funzione del viaggio, non della destinazione.

3° Petalo: Non attaccamento. «Il non-attaccamento è la consapevolezza che possiamo, anzi, dobbiamo avere pensieri sul passato e sul futuro, ma dobbiamo porre un certo distacco tra noi e questi pensieri. Una mente meditativa pensa a quello che è successo sapendo che è successo e che non tornerà più; pensa a quello che potrebbe succedere con la piena consapevolezza che, finché non accadrà, non sarà altro che un’immaginazione. Non si identifica con ciò che ricorda o visualizza. Il faro che illumina è stato costruito nel momento presente. Lì è radicato» [Gotto 2023, p. 166]. Considerate inoltre che il nostro Universo è fondato sul principio dell’impermanenza. È naturale che due grandi amici a forza di piccoli cambiamenti finiscano per diventare incompatibili, e non c’è alcuna ragione per farne un dramma o cercare di adattare vecchi schemi a situazioni nuove. Così potremmo diventare inadatti ad un lavoro nel quale primeggiavamo, o perdere il gusto in attività che prima ci soddisfacevano. Anche in questo caso, l’unico atteggiamento ragionevole è guardare avanti ed aprirci alle opportunità del futuro. La situazione può essere scomoda per un momento, ma proprio l’impermanenza garantisce che non sarà così per sempre. Ci saranno momenti migliori anche solo per un fatto statistico, purché ovviamente non ci si immobilizzi. È importante ricordare che il primo passo non è mai per raggiungere la meta, ma per spostarsi da dove ci si trova. L’eccezionalità dell’amore (quello vero) non sta affatto nel mantenere abitudini e sentimenti invariati, ma nel farli evolvere nei due partner in maniera costantemente compatibile.

4° Petalo: Non giudizio. Non giudicare, lo dico per te. Se lo farai, tenderai a sopravvalutare l’importanza del giudizio, del tuo come di quello degli altri. Inizierai a supporre che gli altri ti giudichino e darai un peso enorme al loro giudizio, anche quando sarai solo tu ad immaginarlo. La tua energia nervosa, la tua agitazione, si trasmetterà attorno a te. Forse proprio questa “energia” renderà le persone inquiete portandole effettivamente a giudicarti. Se seguirai questa strada, ammazzerai la tua spontaneità, perderai la libertà, e non proverai più il tepore della serenità. «Non-giudizio significa non avere un’opinione su tutto ciò che accade. Non è necessario etichettare ogni singola cosa come giusta o sbagliata, bella o brutta, piacevole o spiacevole. Purtroppo i social network ci spingono a giudicare costantemente, a fornire opinioni non richieste. Ci chiedono “A cosa pensi?” scatenando il nostro egocentrismo. È così che si finisce a vivere troppo dentro le proprie riflessioni, nell’idea che si ha di sé stessi e nei dubbi su ciò che gli altri pensano di noi. Osserva la realtà e basta, senza farti trascinare dai pensieri giudicanti. Molte cose sono perfette così come sono» [Gotto, pp. 165-166].

5° Petalo: Non sé. «La tua mente ha costruito un’immagine di te stesso. Puoi chiamarla “sé”, “io”, “ego” o come preferisci. Questa immagine mentale contiene il tuo nome, il tuo passato, i tuoi pensieri, le tue credenze, le tue emozioni, il tuo aspetto fisico e molte altre cose che consideri tue. Quando qualcuno ti chiama o pensi a te stesso, questa immagine affiora nella tua mente. Ebbene, questo “sé” non è che un’illusione. Il “sé” è sempre diverso, e se è sempre diverso, come puoi dire che esiste? Tu, in questo momento e in questo luogo, non sei nemmeno la stessa persona che eri cinque minuti fa. Poco fa avevi pensieri diversi, sensazioni diverse. Dicevi cose diverse, facevi cose diverse. Eri seduto in un altro modo, quindi anche il tuo aspetto era diverso. Il tuo stato d’animo era diverso. Come puoi dire di essere la stessa persona? Ricordati l’impermanenza: la vita è un fiume che scorre. Tutto cambia, niente è mai uguale a sé stesso. Tu cerchi di assomigliare il più possibile alla tua immagine mentale. Ma questa è solo un’idea: non è reale. E infatti ci saranno delle volte in cui ti consideri valoroso e delle altre in cui ti consideri debole, sconfitto. Se il tuo “sé” cambia continuamente non può essere reale. I tuoi pensieri cambiano, le tue emozioni cambiano, cambiano il tuo aspetto, la tua età, la tua esperienza, il tuo atteggiamento e le tue idee… Se elimini questi elementi che ritieni essere tuoi, con cui ti identifichi e che non riesci a lasciare andare, che cosa rimane di te? Quando rimuovi il “sé”, ti rimane tutto. L’intero Universo. Questo è ciò che sei. Se crediamo di avere un “sé” permanente, ci attacchiamo a questa idea e ci identifichiamo con le nostre esperienze, i nostri pensieri e le nostre emozioni. Questo può causare sofferenza, poiché ciò che chiamiamo “sé” è in realtà soggetto a cambiamento e non è permanente. Noi vorremmo che lo fosse, ma non lo è. Da questo contrasto tra desiderio e realtà nasce un dolore esistenziale, che però possiamo evitare. L’uomo tende a porsi al centro di tutto e quindi a fare del proprio “sé” un baluardo da difendere a ogni costo. È attraverso l’ego e il suo costante giudizio e confronto che conosce la realtà» [Gotto 2023, pp. 185-190]. Se rinunci a difendere la tua immagine, puoi concederti il lusso di essere libero. Puoi compiere scelte sulla base unica del tuo benessere, senza pensare a cosa ne pensino gli altri. Puoi abbandonare quel lavoro snervante che ti toglieva tempo e salute, ma che tenevi per il denaro e lo stile di vita che ti permetteva di sfoggiare. Puoi correre nei prati di notte, a piedi nudi ululando alla Luna, se solo lo desideri, perché non ti importa di alcun giudizio.

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Owain Ddantgwyn, alias Artù

Owain Ddantgwyn, alias Artù

(di Graham Phillips, estratto da La Ricerca del Santo Graal, Sperling & Kupfer 1998)

[Nell’Appunto #1[1] abbiamo accennato al noto re britannico Artù e alla sua possibile identificazione con il guerriero veneto (o celto-veneto[2]) Owain Ddantgwyn, re del Gwynedd e del Powys detto “Arth” (lett. “Orso”). Se lì ci siamo affidati all’intuizione di Piero Favero da lui riportata ne L’Alba dei Veneti, qualche tempo dopo la prima edizione degli Appunti siamo entrati in possesso di una copia de La Ricerca del Santo Graal, ove Graham Phillips, sulla base di una ricerca puntigliosa da lui condotta in tandem con Martin Keatman, fornisce solide fondamenta alla medesima identificazione; N.d.C.]

Durante il medioevo, tra il XII e il XV secolo, i racconti aventi per soggetto il potente Re Artù furono numerosi, e assicurarono celebrità paneuropea a Camelot e ai Cavalieri della Tavola Rotonda. Molte tematiche di questi racconti arturiani sono con ogni evidenza invenzioni, ma un manoscritto assai più antico, compilato secoli prima che queste storie fantastiche fossero scritte, suggerisce che Re Artù abbia avuto esistenza reale. Nella Historia Brittonum, redatta dal monaco gallese Nennius verso l’830, Artù è citato semplicemente quale il guerriero britannico che sconfisse gli invasori anglosassoni nella battaglia di Badon, dopo che i Romani si erano ritirati dall’isola nel V secolo. Stando a quanto si legge nella Historia ecclesiastica gentis anglorum compilata dal Venerabile Beda, storico dell’VIII secolo anglosassone, la battaglia di Badon avrebbe avuto luogo nel 493, nell’alto medioevo, un turbolento periodo della storia britannica del quale restano pochi documenti scritti.

Dal momento che lo scontro in questione fu un evento storico, ricordato anche dal monaco e cronista britannico Gilda il Saggio nel suo De excidio et conquestu Britanniae ac flebili castigatione in reges, principes ac sacerdotes, scritto attorno al 545, quando era ancora ben viva la memoria della battaglia, molti storici oggi ammettono che Artù potrebbe essere stato davvero un capo britannico che guidò una delle ultime controffensive contro gli anglosassoni invasori. Inoltre, non soltanto sembra che un Artù storico sia effettivamente esistito, ma anche che alcune delle narrazioni a lui collegate possano essersi basate su eventi storici; così, per esempio, la leggenda di Excalibur può aver tratto origine da un antico rito funerario celtico.

Gli anglosassoni, originari della Germania e della Scandinavia, riuscirono a conquistare tutta l’Inghilterra, e i britanni, i celti indigeni, furono relegati in quello che è oggi il Galles. Siccome Artù a quanto sembra era stato un capo dei britanni, le leggende relative alle sue imprese pare siano sopravvissute soprattutto nel Galles, prima di diventare una ricca fonte di ispirazione per i romanzi medievali a partire dal XII secolo. L’origine di alcune di queste tematiche nel contesto dei racconti arturiani medievali può darsi debba pertanto reperirsi nell’antica tradizione gallese o celtica. […]

Il guerriero Artù, citato nella cronaca di Nennius scritta verso l’830, è esistito realmente? Molti studiosi si rifiutano di prendere in considerazione questa ipotesi, sostenendo che i romanzi arturiano sono troppo fantasiosi. Tuttavia, l’Artù di Nennius non è inserito in un contesto di magia e mistero, come invece in successivi racconti medievali, ma è ricordato in termini storici. Nennius cioè, lungi dal presentare un Artù romanzesco, si limita a descrivere un capo britannico che aveva combattuto con successo contro i sassoni.

Per contestualizzare il ruolo attribuito da Nennius ad Artù, è opportuno accennare alla caduta dell’Impero Romano e alle conseguenze che essa ebbe in Britannia.

Nel 395, l’Impero Romano fu diviso in due parti, l’Impero d’Occidente, con capitale Roma, e l’Impero d’Oriente, governato da Costantinopoli, l’attuale Istanbul. Nei primi anni del V secolo si profilò il crollo dell’Impero d’Occidente; sebbene esso resistesse per qualche altro decennio ancora, la sua struttura era definitivamente minata. La sua fine ebbe inizio con disordini causati dagli unni dell’Asia centrale. Sospinta inizialmente da una serie di disastrosi raccolti, questa fiera e bellicosa popolazione si scagliò contro i goti occidentali, che furono scacciati dalle loro terre. A loro volta, i goti vinti varcarono il Danubio e il Reno, obbligando altre etnie a migrare verso Occidente. Roma era ormai ridotta sulla difensiva, e le orde barbariche di ogni parte d’Europa cominciarono a penetrare attraverso le frontiere dell’Impero. Alarico, re dei visigoti, calò in Italia nel 401 e nel 408 pose l’assedio all’Urbe stessa; per respingere l’assalto, i romani si trovarono nella necessità di ritirare truppe da avamposti coloniali in Britannia.[3]

Ampiamente ridotte le forze romane, in territorio britannico ben presto si verificarono situazioni di emergenza. Al nord, i pitti della Scozia diedero inizio a una serie di incursioni sempre più audaci attraverso il Vallo di Adriano, e nel 410 i governanti romani della Britannia chiesero rinforzi all’imperatore Onorio. Questi, però, aveva ben altri problemi da affrontare, perché quello stesso anno Roma venne saccheggiata dai visigoti di Alarico. Non solo quindi nessun rinforzo poté essere inviato in Britannia, ma anzi da questa vennero richiamate le legioni che ancora vi si trovavano. In seguito al crollo dell’Impero d’Occidente le forze romane vennero completamente ritirate dall’isola.

La Britannia aveva fatto parte dell’Impero Romano per tre secoli e mezzo, e la struttura governativa a lungo aveva avuto a fondamento quella militare, situazione che aveva assicurato la stabilità per un periodo più esteso di ogni altro di cui si avesse localmente memoria. Ora, improvvisamente, questo supporto viene a mancare e il paese rischia di piombare in preda all’anarchia. Ogni britanno nato libero era stato cittadino romano, e ben pochi erano quelli che vedevano con favore la partenza delle legioni.

Le testimonianze attendibili di questo periodo della storia britannica sono scarse e disperse, ma un quadro complessivo lo si può ricavare da san Germano, vescovo di Auxerre, che nel 429 si recò in Britannia quale inviato della Chiesa cattolica. Stando al suo biografo Constantius, sebbene nel nord del paese si verificassero gravi disordini, in numerose località britanniche sussisteva un modo di vivere di tipo romano. Le cose, però, andarono rapidamente peggiorando in seguito al crollo definitivo dell’Impero d’Occidente.

La sua traballante struttura si frantumò completamente nel 476 quando Odoacre, un ufficiale sciro (od erulo), depose l’imperatore Romolo Augustolo e divenne re d’Italia. Volatilizzate per sempre le speranze di una rinascita imperiale, verso la fine del V secolo a quanto sembra crollò l’amministrazione centrale in Britannia. In molte regioni del paese si tornò a forme di aggregazione tribale e ben presto si imposero locali signori della guerra. Le contese territoriali erano all’ordine del giorno, e l’isola precipitò inesorabilmente nell’anarchia.

Nell’età oscura che seguì, ben poche cronache vennero redatte, e praticamente nessuna di esse ci è pervenuta. Il motivo principale della scarsissima conoscenza che abbiamo di questo periodo della storia britannica va ricercato nel fatto che il distacco da Roma isolò la Britannia dall’ambito degli scrittori mediterranei che costituiscono la principale fonte delle nostre informazioni sull’epoca. Ne consegue che gli eventi verificatesi in Britannia durante il V secolo sono tutt’altro che documentati; comunque, sembra certo che la parte settentrionale del paese subì ripetute incursioni da parte dei pitti, mentre la parte occidentale veniva invasa dagli irlandesi. Tuttavia, per la maggioranza dei britanni il problema più immediato era costituito dalle lotte per la supremazia regionale tra i capi indigeni, e fu in un paese frammentato che gli anglosassoni diedero inizio alle loro invasioni.

Abitanti costieri dell’attuale Danimarca e della Germania settentrionale cominciarono ad attraversare la Manica per stabilirsi nella Britannia orientale. Molti capi britannici, anziché tentare di respingere quegli indesiderati migranti anglosassoni, presero ad assumerli al proprio servizio quali mercenari, ricompensandoli oltretutto con terre in cui potevano insediarsi. Verso la metà del V secolo, tuttavia, gli anglosassoni stavano arrivando ormai in numero tale da provocare disordini e scontri, e quella che era iniziata come migrazione ben presto si trasformò in invasione. Per qualche decennio, le forze britanniche furono progressivamente sospinte, verso ovest, finché attorno al 490 diedero il via a una serie di controffensive coronate da successo.

Chiunque fosse a guidare i britanni nell’ultimo decennio del V secolo, era senza dubbio un formidabile condottiero; che i britanni fossero più forti e più uniti in questo periodo di quanto lo fossero stati prima è comprovato non soltanto da Gilda e dal Venerabile Beda, ma anche dai ritrovamenti archeologici. Per esempio, nel Lincolnshire e nell’East Anglia vennero erette enormi fortificazioni a terrapieno; il tracciato dei fossati difensivi nella parte orientale dimostra chiaramente che i valli avevano lo scopo di respingere attacchi da est, vale a dire dalla zona occupata dagli anglosassoni. Lungo la valle del Tamigi questi eressero terrapieni ad andamento lineare aventi lo scopo di segnare una stabile frontiera, una difesa contro i britanni che ormai senza dubbio avevano cessato di essere la moltitudine disordinata di pochi anni prima, anzi rappresentavano ormai una minaccia effettiva per i sassoni.

Le massicce fortificazioni britanniche comprovano l’esistenza di ampie riserve di manodopera, e i terrapieni sassoni attestano che i britanni disponevano di un forte esercito; entrambi questi fattori inducono a supporre una nazione unita e, cosa più importante ancora, un capo forte e deciso. Era questi il guerriero Artù citato da Nennius?

Uno dei principali motivi di dubbio circa l’esistenza di Artù consiste nel non aver ritrovato nessuna testimonianza scritta coeva del V secolo in cui si trovi il suo nome. D’altro canto, sono giunte fino a noi punte o poche testimonianze storiche relative a qualsiasi capo britannico del tardo V secolo, e ciò perché all’epoca il paese era frammentato in fazioni in guerra tra loro, e legge, ordine e amministrazione civile erano quasi inesistenti. Ne consegue che, se un Artù ci fu davvero, è molto improbabile che si possa trovarne qualche traccia in resoconti coevi.

A parte un paio di stringate allusioni in poemi bellici di quel periodo oscuro, il più antico accenno ad Artù a noi pervenuto è, lo ripetiamo, quello contenuto nella Historia Brittonum compilata da Nennius verso l’830. Quantunque lo scritto di Nennius non possa essere ritenuto prova sufficiente dell’esistenza di Artù, dal momento che fu vergato tre secoli dopo la battaglia di Badon, a dire dell’autore da lui combattuta, in esso non si trova nulla che induca a vedere in Artù un’invenzione. Introducendo un elenco delle battaglie sostenute da Artù, Nennius afferma:

<In quel periodo i sassoni si accrebbero in moltitudine e si rafforzarono in Britannia. Alla morte di Hengist, suo figlio Octha passò dalla parte settentrionale della Britannia nel regno dei Kentishmen [gli abitanti del Kent], e da lui discesero i re dei Kentishmen. Poi Re Artù combatté contro di loro in quei giorni insieme ai re dei britanni, ma egli stesso era la guida nelle battaglie.>

Tutto ciò che Nennius collega ad Artù sembra storicamente accettabile: entrambi i guerrieri sassoni da lui menzionati, Hengist e Octha, sono citati in fonti anglosassoni, ed entrambi vissero nella seconda metà del V secolo, vale a dire nel periodo in cui Nennius colloca Artù.

A parte gli scritti pervenuti fino a noi di qualche monaco, relativi per lo più a questioni ecclesiastiche, le uniche testimonianze di carattere militare riguardanti la seconda metà del V e la prima metà del VI secolo si ritrovano in opere compilate dagli anglosassoni. La più importante di esse è la Cronaca anglosassone, della quale sussistono diverse copie. Sebbene sembri basarsi su precedenti documenti monastici dei sassoni occidentali, essa su compilata solo durante il regno di Alfredo il Grande, vale a dire tra l’871 e l’899, a quanto pare sotto la personale supervisione di Alfredo stesso.

Il fatto che non vi si trovi alcun accenno ad Artù a lungo ha proiettato un’ombra di dubbio sulla sua storicità. D’altro canto, essendo l’opera con ogni probabilità un tentativo di Alfredo di celebrare le vittoriose imprese dei suoi antenati sassoni, è ragionevole supporre che egli non desiderasse affatto attirare l’attenzione sulle realizzazioni dei suoi avversari britanni. Infatti la Cronaca non menziona in pratica il nome di nessun capo britannico, e tanto meno di quelli che ebbero successo, uno dei quali, stando a Nennius, era appunto Artù. Ne consegue che la mancata citazione di Artù nella Cronaca non può essere usata quale argomentazione conclusiva contro la sua esistenza storica.

Anzi, convalidando Nennius, la Cronaca parla del re sassone Hengist. Da essa apprendiamo che le incursioni sassoni in Britannia ebbero inizio verso il 455, cominciando nel Kent, e che vennero guidate soprattutto dallo stesso Hengist fino al 480 circa. Ciò corrisponde esattamente al resoconto di Nennius, dove questi riferisce che Hengist fu il capo dei Kentishmen poco prima che Artù cominciasse la lotta contro i sassoni. Per la precisione, Nennius riporta che Artù combatté contro i sassoni una volta morto Hengist. La Cronaca afferma che egli morì nel 488, e anche questo corrisponderebbe alle campagne di Artù, se egli combatté la battaglia di Badon nel 493.

Sempre stando alla Cronaca, all’epoca del decesso di Hengist gran parte della Britannia meridionale e orientale era in mani anglosassoni, affermazione che coincide con l’evidenza archeologica, dalla quale risulta che fortificazioni di frontiera erano state occupate dai sassoni che si erano sospinti a occidente fino alla città di Bath. Sembra anche che fu appunto a Bath che si combatté la battaglia di Badon. Il nome moderno della città deriva dalle sue famose terme romane, cioè dai «bagni» che vi si trovavano. Ai sassoni era nota con il nome di Badanceaster, che a sua volta può essere derivato del termine originario britannico baddon, appunto «bagno», tuttora vivo nel moderno gallese.

Riscontri archeologici mostrano che alla fine del V secolo i sassoni per qualche decennio dovettero ritirarsi, cosa che ancora una volta coincide con la documentazione di una grande vittoria britannica all’epoca della battaglia di Badon. Il fatto che nella Cronaca non si trovi nessun accenno alla battaglia stessa ancora una volta dimostra che i suoi compilatori decisero di sottacere i successi britannici di quei tempi.

Siccome Nennius afferma che Octha era succeduto a Hengist all’epoca in cui Artù conduceva le sue azioni, possiamo supporre che questi combatté appunto contro Octha. Di nuovo, questi è una vera figura storica. Un manoscritto sassone del IX secolo, noto come il Cotton Vespasian, oggi conservato alla British Library, contiene un elenco dei re e dei vescovi dell’alto medioevo, tra cui Octha, di cui si dice che succedette a suo padre Hengist. Dal momento che la datazione di Nennius è coerente con la Cronaca, e i due altri guerrieri da lui nominati in una con Artù risultano essere storicamente autentici, si direbbe che non ci siano ragioni concrete per dubitare del suo accenno ad Artù come il più importante capo britannico nell’ultimo decennio del V secolo. […]

La Britannia nel V secolo era […] ben lontana dall’essere una nazione, suddivisa com’era in regni minori. Dovettero passare secoli prima che l’Inghilterra e il Galles divenissero paesi degni di tal nome. L’Inghilterra venne in essere allorché gli anglosassoni si fusero in un’unica nazione, mentre i britanni indigeni, vale a dire i celti che un tempo dominavano tutta l’Inghilterra e il Galles, divennero noti come welsh, dalla parola sassone weala che significava «stranieri». Di conseguenza, fino alla metà del XII secolo le imprese di Artù, un britanno, sopravvissero soprattutto in racconti gallesi, prima di essere riprese e rielaborate da scrittori di Inghilterra, Francia e Germania nelle vicende romanzesche di un monarca feudale medievale.

E allora, chi era codesto Artù, apparentemente il capo dei britanni alla battaglia di Badon nel 493? […] Stando a Nennius, Artù era il «capo in battaglia» dei britanni, presumibilmente il personaggio più potente tra i britanni stessi. Di conseguenza, […] è d’obbligo stabilire da dove potesse provenire il più influente capo britannico dell’epoca. […]

Stando alla leggenda, Artù sarebbe nato nel castello di Tintagel in Cornovaglia, avrebbe regnato da Camelot a Winchester e sarebbe stato sepolto a Glastonbury nel Somerset. Tuttavia, i castelli di Tintagel e di Winchester furono costruiti sei secoli dopo il periodo in cui Artù sarebbe vissuto, mentre la scoperta della sua tomba nell’abbazia di Glastonbury nel 1190 è generalmente ritenuta una mistificazione medievale per attrarre pellegrini. Nella migliore delle ipotesi, siccome né della croce né delle ossa che i monaci sostenevano di aver trovato si ha più notizia, non esiste alcuna prova né dell’una né delle altre. […] Inoltre nulla comprova che un luogo chiamato Camelot sia mai esistito. Il primo dei romanzi arturiani medievali non ne fa alcuna menzione. Il primissimo impiego di Camelot quale denominazione della corte di Artù si ha in Lancelot ou Le Chevalier à la charrette (Lancillotto o il cavaliere della carretta) di Chrétien de Troyes, scritto verso il 1180, dove compare una sola volta e di sfuggita. Il nome fu adottato poi da quasi tutti gli autori. Siccome sembra che Chrétien abbia inventato Camelot nel XII secolo, di per sé il nome difficilmente può essere di aiuto nella ricerca del campo base di un guerriero vissuto sette secoli prima. […] Tanto più che tutti i romanzieri descrivono particolareggiatamente la splendida città e il suo impareggiabile castello, ma non ne specificano mai il sito.

Se l’Artù storico era davvero il più potente capo, ne consegue che la sua residenza dovesse essere la roccaforte più importante e possente. E allora, qual era la principale città britannica ai tempi di Badon? Stando alla prospezione archeologica, si direbbe che fosse la città romana di Viroconium, […] nelle Midlands.

Durante l’occupazione romana, la Britannia era stata divisa in distretti noti come civitates, ciascuno basato su preesistenti aree tribali e governato da una capitale amministrativa. Le quattro città principali erano Londra, Lincoln, York e Viroconium. Da Gilda, dal Venerabile Beda e dalla Cronaca sappiamo che, mezzo secolo dopo il ritiro dei romani nel 410, Londra e Lincoln vennero occupate dagli anglosassoni, mentre York veniva saccheggiata dai pitti. Sebbene altri centri maggiori, come Cirencester ed Exeter, fossero relativamente al sicuro da attacchi, si potrebbe quindi supporre che sia stata Viroconium ad assumere la massima importanza.

La posizione di Viroconium sulla mappa

A differenza di Londra, Lincoln e York, a tutt’oggi città fiorenti, di Viroconium attualmente non restano che le mura in rovina, sorgenti in una tranquilla zona agricola appena fuori dal villaggio di Wroxeter nello Shropshire, a circa otto chilometri a sudest di Shrewsbury. I resti visibili di Viroconium sono quelli di un grande complesso di terme costruito verso il 150; le antiche strutture in mattoni, che ancora dominano il sito, noto localmente con il nome «Old Work», erano un tempo il muro meridionale di un vasto palazzo a navate (denominato «la basilica») adibito a palestra per le terme stesse. Dal momento che si levano in aperta campagna, le rovine di Viroconium hanno offerto un’eccellente opportunità di scavi, e nell’ultimo secolo molte ricerche archeologiche vi sono state infatti condotte. Oggi, il sito è aperto al pubblico e vi si trova anche un piccolo museo dove è esposta una parte dei reperti rinvenuti, sebbene la maggior parte di essi sia ospitata nel Rowley’s House Museum a Shrewsbury.

Verso la fine degli anni Sessanta, sul sito è stato intrapreso un nuovo scavo che è proseguito per oltre un decennio, e ha restituito una cospicua documentazione del fatto che la città continuò a essere un capoluogo amministrativo altamente urbanizzato anche dopo che altre città romane erano state del tutto abbandonate. Inoltre, sembra che verso il 420, mentre altrove i centri romani cadevano in rovina, Viroconium sia stata addirittura ricostruita.

Dalle buche scavate per conficcare pali e da altre significative indicazioni delle fondamenta e delle costruzioni della città, si deduce che gli edifici del V secolo erano stati costruiti in legno, non già in mattoni intonacati, a differenza di quelli della precedente città romana. Erano complesse costruzioni di vaste dimensioni, di struttura classica, con colonnati e facciate rispondenti a un ordine preciso, e molte si articolavano su almeno due piani. Non soltanto erano stati eretti nuovi edifici e tracciate ex novo strade, ma anche le infrastrutture di Viroconium avevano subito un ripristino. Nuovi sistemi fognario e di fornitura di acqua sono stati installati ricorrendo a un complesso insieme di acquedotti, e lunghi tratti delle strade lastricate romane erano stati dotati di una nuova copertura. Il centro nevralgico della nuova Viroconium era costituito da un grande edificio munito di ali eretto sul sito della «basilica»; accompagnata da un insieme di edifici adiacenti e di fabbricati annessi, questa struttura in stile classico sembra essere stata il palazzo di una serie di importanti capi postromani. A quanto afferma il direttore degli scavi, Phillip Barker, potrebbe essere stato uno degli ultimi edifici classici sorti in Britannia.

 Viroconium è di gran lunga lo stanziamento dell’alto medioevo più complesso finora riportato alla luce. Sembra essere stata non soltanto la principale città della Britannia del V secolo, ma anche essere rimasta tale ancora per molto tempo dopo la battaglia di Badon. Di conseguenza, il suo imponente palazzo era probabilmente la residenza del più importante capo dei britanni. In altre parole, posto che Artù sia realmente esistito, la città di Viroconium è la più credibile aspirante alla qualifica di sede del suo potere, la Camelot storica.

<Perché hai sguazzato nel sudiciume della tua trascorsa perfidia fin dalla tua gioventù, tu orso, guida di molti e auriga del carro della roccaforte dell’orso?[4]>

Questo passo, dovuto alla penna di un oscuro monaco e cronista britannico vissuto attorno alla metà del VI secolo, può contenere una chiave di importanza fondamentale per scoprire la vera identità del misterioso Re Artù. Tale la conclusione a cui siamo giunti tentando di individuare il più probabile capo britannico alla battaglia di Badon, vale a dire il più potente signore della guerra dell’isola, e di conseguenza il più promettente candidato alla qualifica di Artù storico.

Nel VI secolo, la Britannia era frazionata in una serie di piccoli regni, e verso il 545 il monaco Gilda riporta i nomi dei sovrani dei più importanti di essi. Ciò a distanza di solo una generazione da Badon, ed è dunque tutt’altro che improbabile che sia stato il più influente di quei governanti a riportare la vittoria britannica nella battaglia.

Gilda racconta che il re più potente era Maglocunus, ricordato sia da Nennius sia dai Welsh Annals del X secolo, oggi alla British Library, quale signore del Regno di Gwynedd nel Galles settentrionale. Sempre stando a Gilda, Maglocunus aveva conquistato il potere sconfiggendo in battaglia il proprio zio. Nel suo De excidio et conquestu Britanniae, Gilda rimprovera Maglocunus con queste parole:

<Nei primi anni della tua gioventù, tu schiacciasti il re tuo zio e i suoi valorosi soldati con fuoco, spada e lancia.>

Dal momento che Maglocunus era ormai di mezza età quando Gilda scriveva ed è definito un giovane all’epoca in cui aveva rovesciato il proprio zio, ne consegue che l’evento deve aver avuto luogo agli inizi del VI secolo. Ciò significa che lo zio di Maglocunus quasi certamente apparteneva alla stessa generazione dei britanni che avevano combattuto a Badon. Siccome Maglocunus divenne il re più potente dopo averlo sconfitto, lo zio può essere stato effettivamente il comandante britannico durante la battaglia. Lo zio di Maglocunus era dunque l’Artù storico? Purtroppo, Gilda non ne fa il nome, e tutto ciò che possiamo dire è che, a quanto sembra, era stato un valente capo che Gilda ammirava.

Degno di nota il fatto che codesto zio abbia qualcosa in comune con l’Artù leggendario. Una storia affine di lotta intestina si ritrova nei romanzi medievali, nei quali Artù muore quando suo nipote tenta di impadronirsi del trono. Anche se nei romanzi il nome del nipote di Artù è Mordred, la leggenda originaria si era forse fondata sul Maglocunus storico? […]

Un altro potente capo nominato da Gilda era Cuneglasus, signore di un regno separato, ma non nominato, nello stesso periodo in cui Maglocunus regnava su Gwynedd. Cuneglasus è ricordato in una genealogia contenuta nei Welsh Annals, dove viene indicato quale cugino di Maglocunus. Il padre di Cuneglasus può pertanto essere stato lo zio di Maglocunus, e il fatto che Cuneglasus fosse un possente e autonomo sovrano rende più che mai probabile che sia stato suo padre a perdere il trono usurpato da Maglocunus. In altre parole, il padre di Cuneglasus era il sovrano di un regno che, dopo la sua morte, fu diviso in due reami separati: suo figlio gli succedette direttamente sul trono di uno, mentre suo nipote si impadroniva dell’altro.

Riferendoci quindi a quanto scritto da Gilda, che costituisce la fonte storica coeva più completa a tutt’oggi, il padre di Cuneglasus è pertanto il più probabile candidato alla figura del più potente sovrano britannico durante la presunta era arturiana. Ma chi era in realtà? Nei Welsh Annals, il padre di Cuneglasus è indicato con il nome di Owain Ddantgwyn. Ben pochi dubbi possono sussistere circa il fatto che questo fosse davvero il suo nome, dal momento che anche quattro diverse genealogie dell’alto medioevo lo registrano come tale. Di conseguenza, a prima vista si direbbe che il più potente capo all’epoca di Badon in fin dei conti non avesse nome Artù. D’altro canto, se esaminiamo il nome Artù scopriamo che può darsi non fosse affatto un nome di persona bensì un nome di battaglia, un titolo.

Vari storici hanno teorizzato che «Artù» fosse un derivato britannico del nome romano Artorius: ipotesi che ha avuto larga diffusione in seguito alla pubblicazione, avvenuta nel 1973, del poema Artorius in dodici parti di John Heath-Stubbs, al quale ha fatto poco dopo seguito Artorius Rex di John Gloag, dato alle stampe nel 1977. È stato fatto rilevare che un soldato romano a nome Lucius Artorius Castus prestò servizio quale ufficiale in Britannia verso la fine del II secolo, e che un altro a nome Artorius Justus si trovava sull’isola nel III secolo, ma non ne consegue per forza di cose che Artorius fosse la versione originale del nome Artù. Sembra infatti più probabile che il nome Artù sia derivato dalla parola arth, un antico vocabolo britannico tuttora presente nel gallese moderno, che significa «orso».

Da numerose fonti risulta che i guerrieri britannici dell’alto medioevo facessero uso di nomi di battaglia animali, come del resto i pellirosse dell’America settentrionale, che venivano designati come Cavallo Pazzo, Aquila Bianca e Toro Seduto. Da poemi guerreschi altomedievali come il Gododdin, attribuito al bardo Aneirin del VII secolo, apprendiamo che a molti signori della guerra dell’alto medioevo veniva associato il nome di un animale, che in qualche modo ne personificava le qualità.

Nel Gododdin si narra la sorte di un gruppo di guerrieri del regno omonimo nella Scozia meridionale che verso il 600 si accinsero ad affrontare gli anglosassoni. Due copie del poema risalenti alla metà del XIII secolo sono conservate nella biblioteca pubblica di Cardiff. Tuttavia, stando allo stile della composizione e alla grafia dei nomi, si ritiene che il Gododdin sia stato composto nella prima metà del VII secolo. In esso, i guerrieri sono indicati con nomi di battaglia come Cane e Lupo, e uno è appunto chiamato Orso. Sebbene codesto particolare guerriero sia vissuto in epoca troppo tarda per poter essere stato l’Artù storico, il Gododdin comprova con ogni evidenza che «Orso» era usato quale nome di battaglia dai britanni durante l’alto medioevo.

Anche Gilda si serve dei nomi di battaglia dei capi da lui citati. Così, per esempio, chiama Maglocunus il Drago, e significativamente Cuneglasus l’Orso. A quanto si sa di Maglocunus, sembrerebbe che questi nomi di battaglia fossero ereditari, poiché è noto che i suoi discendenti continuarono a insignirsi del suo titolo di Drago. I discendenti in questione, infatti, finirono per conquistare gran parte del Galles e il loro emblema è tuttora presente sullo stendardo nazionale gallese.

È quindi possibile che anche Cuneglasus avesse similmente ereditato il nome di battaglia di suo padre. Infatti Gilda, nella citazione pocanzi riprodotta, suggerisce appunto questo, sottintendendo che Cuneglasus, l’Orso, è ora a comando di una fortezza già nota come «roccaforte dell’Orso». In altre parole, aveva ereditato una roccaforte da un precedente Orso, presumibilmente suo padre Owain Ddantgwyn.

Sicché Owain, il principale candidato al ruolo di comandante britannico nella battaglia di Badon, può davvero essere stato chiamato Arth, nome che non è escluso sia stato alterato e trasformato nel più lirico Artù all’epoca in cui Nennius compilava la sua opera tra secoli più tardi. Infatti, leggende superstiti suggeriscono proprio questo. Nel folclore della Cornovaglia, la costellazione dell’Orsa Maggiore, il Grande Orso, è chiamata Arthur’s Wain, ovvero «Carro dell’Orso». Inoltre, l’iniziatore dei romanzi arturiani nel XII secolo, Goffredo di Monmouth, afferma che Merlino aveva profetizzato l’avvento di Artù dopo aver avuto la visione di un orso tra le stelle. Entrambi questi riferimenti leggendari, che in apparenza accoppiano Artù con la costellazione dell’Orsa Maggiore, comprovano chiaramente che egli era associato a un orso assai prima che i romanzi acquistassero popolarità da un capo all’altro d’Europa.

Dunque, Owain Ddantgwyn ci sembra essere il candidato più accettabile per il ruolo dell’Artù storico. I documenti storici e archeologici hanno già dimostrato che la città di Viroconium era la più probabile sede del guerriero sul quale si basarono le leggende di Artù. Nella seconda metà del V secolo, come si è detto, la Britannia era frammentata in piccoli regni, e Viroconium divenne la capitale di quello che geograficamente le si estendeva attorno, il reame di Powys. Oggi il nome è passato ad indicare una contea gallese, ma in origine Powys comprendeva gran parte delle Midlands occidentali e del Galles centrale. Ciò che a questo dobbiamo verificare è se Owain Ddantgwyn fosse stato effettivamente re di Powys.[5] […]

Sappiamo che Owain era sovrano di un regno che comprendeva Gwynedd nel Galles settentrionale, e che Maglocunus dopo la sua morte aveva assunto il dominio di quella zona. Ma il regno di Owain comprendeva anche quello che in seguito sarebbe diventato il reame separato di Powys? Da Gilda apprendiamo che il figlio di Owain, Cuneglasus, governava un regno che alla metà del VI secolo era stato separato da Gwynedd: purtroppo, Gilda non fornisce il nome del regno di Cuneglasus, limitandosi a indicare che includeva ciò che in suo passo designa come la «roccaforte dell’Orso». Questa misteriosa fortezza era una cittadella del Powys? O anzi, la stessa Viroconium era la «roccaforte dell’Orso»?

All’epoca in cui Gilda scriveva, i cinque più potenti regni britannici erano Gwynedd nel Galles settentrionale, Powys nell’Inghilterra centrale, Dumnonia in Devon e Cornovaglia, Gwent nel Galles sudorientale e Dyfed nel Galles sudoccidentale. Siccome Maglocunus regnava su Gwynedd, e Gilda afferma che un Costantino regnava su Dumnonia e un Vortipor su Dyfed, è assai probabile che Cuneglass esercitasse il proprio dominio su Powys o Gwent. E poiché entrambi codesti regni a quanto sembra avevano comuni confini con Gwynedd, sia l’uno che l’altro possono essere stati la seconda metà geografica del regno su cui aveva esercitato il proprio dominio Owain Ddantgwyn.

La famiglia di Cuneglasus, tuttavia, può essere senz’altro collegata al regno di Powys a causa del prefisso Cun presente nei suoi nomi. Nell’antica favella britannica, il britonico (brythonic), come pure nel gallese moderno, la sillaba Cun è pronunciata Cyn. Infatti, in più di una genealogia gallese Cuneglasus è indicato come Cynglasus o Cynglas. Un antico poema guerriero gallese, The Song of Llywarch the Old (Il Canto di Llywarch il Vecchio, oggi alla Bodleian Library), che si crede composto verso l’850, chiama Cynddylan il sovrano di Powys alla metà del XII secolo, aggiungendo che i suoi predecessori immediati erano Cyndrwyn e Cynan. Anche i Welsh Annals collegano la famiglia con il Powys, laddove riferiscono che «Cynan re di Powys morì a Roma nell’854». Lo stesso poema afferma che i re di Powys erano gli «eredi del grande Artù». Siccome non è stato scoperto nessun documento del genere in base al quale collocare nel Gwent la stirpe di Cuneglasus, sembrerebbe quasi certo che costui sia stato un re di Powys.

Sotto il profilo archeologico, la recente opera di K.R. Dark, direttore del Journal of Theoretical Archaeology, pubblicata nel 1994 e intitolata Civitas to Kingdom, istituisce anch’essa un nesso tra Cuneglasus e Powys, ipotizzando non soltanto che il primo fosse un capo powysiano, ma anche che Viroconium fosse «il centro politico del regno powysiano nel V secolo».

Sembra dunque abbastanza attendibile che Cuneglasus fosse stato il sovrano del regno di Powys, ma si deve supporre che suo padre Owain Ddantgwyn avesse in precedenza regnato sulla stessa regione? Anche in questo caso, la documentazione archeologica appare persuasiva. Un re il cui nome recava il prefisso Cun fu sepolto a Viroconium verso il 480, a quanto sembra prima del regno di Owain Ddantgwyn. Nel corso degli scavi condotti a Viroconium nel 1967, una lapide tombale databile al 480 circa è stata scoperta appena all’esterno dei bastioni cittadini, ed essa reca l’iscrizione Cunorix macus Maquicoline, vale a dire: «Re Cuno figlio di Maquicoline».[6]

Sembra dunque più probabile che Owain Ddantgwyn, il più attendibile candidato al ruolo di Artù, governasse il Powys dalla città di Viroconium, la più probabile residenza storica del capo britannico al tempo in cui, secondo Nennius, sarebbe vissuto Artù. In altre parole, stando ai dati archeologici e storici, Owain regnò nel luogo giusto nel periodo giusto per essere stato l’Artù indicato da Nennius.


[1] D. Marin, Appunti di Storia Proibita, SoleBlu 2022, App. #1.

[2] Sulla commistione tra Veneti e Celti, cfr. D. Marin, Cronache del Dominio, sec. 2.6 “Veneti”, p. 64.

[3] L’occupazione romana della Britannia era iniziata intorno al 43 d.C. e si sarebbe conclusa nel 410.

[4] Gilda, De excidio et conquestu Britanniae (La rovina e la conquista della Britannia), 545 ca.

[5] Gli Annali riportano che Owain Ddantgwyn sconfisse in battaglia il precedente re del Powys, Vortigern, sicché è verosimile che lo stesso ne abbia inoltre guadagnato la corona.

[6] Potrebbe trattarsi di Cunedda, padre di Einion Yrth (Uther Pendragon) che fu padre di Owain Ddantgwyn, ovvero il nonno del presunto Artù. In precedenza Cunedda aveva regnato sui Veneti dell’Angus (Scozia) stabilendo rapporti amicali con i Pitti, tanto che le cronache confondono talvolta i due popoli. Aveva tuttavia avuto la peggio negli scontri che avevano seguito l’invasione dei Milesi (Scoti) dall’Irlanda, ed era stato costretto a spostare la propria gente nel Gwynedd. I Veneti erano giunti nell’Angus dallo Jutland, dopo che gli Elleni avevano conquistato la regione nel 2193 a.C. e ne avevano tradotto il nome in Etolia. Da qui, oltre che nell’Angus, la “diaspora” aveva condotto i Veneti in Armorica (dove li avrebbe combattuti Giulio Cesare), nel Donegal irlandese, nella Curlandia baltica e in Pomerania (e da qui nel Nord Italia dopo il 1200 a.C.). Cfr. D. Marin, Platone nel Baltico, SoleBlu 2022. Cunedda aveva inoltre sangue ebraico, poiché la sua famiglia originava dall’unione di Bran Fendigaid “il benedetto” (già principe dell’Angus) con Anna ben Cleopa, che secondo i Vangeli sarebbe stata cugina di Gesù il Nazareno.

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La Famiglia Marin

Osserviamo il cartiglio. L’Unicorno è la cavalcatura della regina amazzone Talestri; la “Stella degli Argeadi” rappresenta la famiglia di Alessandro il Grande, discendente dal Re di Argo Temeno; il Leone è l’effige dei Veneti e di Venezia, laddove il (genovese) cav. Lucio Bortolamio si installò nel 1227. Quest’ultimo prese casa nel quartiere “Marin” della città lagunare, così chiamata essendo zona di spaccio dei mercanti di San Marino. Dacché i suoi figli ebbero per cognome la stessa etichetta.

Si narra che allorché Alessandro si trovava in Asia Minore, egli ebbe la visita della nobile Talestri, Regina delle Amazzoni che dominava i territori intorno al fiume Termodonte, tra la Catena del Caucaso e il fiume Fasi. La donna trascorse 13 notti nella sua tenda, e nove mesi più tardi diede alla luce una bambina: Mirtale. Secoli avanti, una seconda Mirtale, discendente della prima, sarebbe venuta a Venezia accompagnata dal padre, un mercante della Crimea. Qui avrebbe conosciuto il cavaliere Lucio Bortolamio, che proveniente da Genova si era appena stabilito nel quartiere “Marin”. Era il 1.227. Dopo una breve frequentazione, Bortolamio e Mirtale si sarebbero incontrati sul talamo nuziale ed avrebbero generarato figli e figlie, a cui l’anagrafe della Serenissima avrebbe assegnato per cognome il nome stesso del quartiere: Marin, appunto. Da allora molti Marin diventarono membri del senato veneziano; alcuni furono addirittura ambasciatori presso il sacro imperatore. Ciononostante, la condizione economica dei nostri avi più recenti illustra chiaramente la decadenza del casato.

Nel Romanzo di Alessandro, il cuoco del re macedone – Andrea – si imbatte per caso in una sorgente in cui si ferma per lavare il pesce. Il primo però a venire bagnato dall’acqua, magicamente riprende vita, così che Andrea si rende conto di aver trovato la “fonte dell’eterna giovinezza”. Il cuoco non rivelerà mai la sua scoperta, eccezion fatta per la piccola Mirtale (qui chiamata Kalé), che accompagnata alla fonte ne beve in abbondanza divenendo immortale. Ora, se Mirtale divenne immortale, dovremmo intendere che la seconda Mirtale, sposa di Lucio Bortolamio, fosse in realtà la stessa figlia di Alessandro? Mi rendo conto che è soltanto un racconto, ma a volte sognare è necessario.

Nota a margine: nello stesso Romanzo, l’amazzone Talestri viene chiamata Unna.

Alessandro, Talestri (Unna) e la piccola Mirtale (Kalé)
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C0v1d e Serotonina

C0v1d e Serotonina

Dopo 26 anni di Disturbo Ossessivo Compulsivo, sono in grado di misurare i miei livelli di Serotonina meglio di quanto potrei misurare le porzioni a tavola. Ho aspettato di prendere il C0V1D tre volte prima di espormi, per poter parlare con sicurezza. Ora lo considero un dato di fatto: il C0V1D riduce sensibilmente i livelli di serotonina.

Un livello di serotonina ottimale favorisce: fiducia nel mondo e nel significato dell’esistenza, leggerezza, slanci intuitivi, coinvolgimento, esperienze di flusso.

Un livello di serotonina sottosoglia produce: sfiducia, ossessività, sentirsi in trappola, apatia agli stimoli, isolamento, ruminazione mentale, ripetizione di schemi disfunzionali.

Come potete notare anche da soli, una riduzione della serotonina va a rinforzare proprio quei fenomeni psichici che la società produce volontariamente da anni attraverso i media, la scuola e una gestione dell’economia che si riflette nei ritmi ossessivi e negli orari eccessivi delle attività lavorative. Poiché tali fenomeni erano già noti come conseguenza del V1R[]S DENGUE, non escluderei che nel C0V1D ci siano appunto frammenti di DENGUE.

Il giornalista Paolo Barnard, ne L’Origine del V1R[]S, Chiarelettere 2021, ha portato le prove (prove, non indizi) della produzione del C0V1D X1X in laboratorio (a []4N) a fini di studio. Barnard ha ribadito di non credere ad una diffusione volontaria, ma di sostenere l’ipotesi della diffusione accidentale. Ovviamente qui ciascuno può dire la propria. A me personalmente pare strano che qualcosa si diffonda per caso e che sempre per caso produca effetti in linea con i programmi sociali delle élite.

Concludo supponendo che un “buon” piano prevederebbe la subitanea distribuzione di un V4CC1N0, che da un lato abbia qualche blando effetto immunitario, dall’altro introduca ulteriori agenti inibitori della serotonina. Curiosamente, un’inibizione della serotonina avrebbe manifestazioni più importanti nei soggetti più giovani, con un picco nei soggetti adolescenti, abbattendo un’importante barriera naturale tra i fattori di stress ed il loro impatto sul sistema circolatorio, cuore compreso. In questo modo, se non si studiano gli effetti sulla serotonina, il V4CC1N0 apparirebbe appunto come tale, così da poterlo affidare anche a ricercatori in buona fede senza temere che vi scoprano nulla di compromettente.


Aggiunge Niko Verghil da facebook:

«L’oggetto specifico delle manifestazioni patologiche gravi del C0V1D consiste nella tempesta citochimica su base autoimmune, un fenomeno a penetrazione profonda tanto da determinare problemi nella coagulazione. Gli aspetti infiammatori e autoimmuni sono strettamente collegati con la produzione di neurotrasmettitori.»

«In aggiunta, la tempesta di citochine ha un effetto opposto su altre tipologie di neurotrasmettitori, ovvero provoca un impoverimento di serotonina e dopamina, molecole fondamentali per il nostro benessere psicofisico. Queste sostanze sono, infatti, coinvolte in molti aspetti della motivazione, del piacere, dell’umore e delle relazioni sociali.»


Da successivi scambi è emerso come il Covid-19 inibisca contemporaneamente la trasmissione di serotonina, dopamina e melatonina, abbattendo la dimensione spirituale della psiche e inducendo uno stato apatia e depressione.

Tali circostanze implicano la possibilità che il Virus costruito nel laboratorio di Wuhan sia una sorta di ibrido tra la comune influenza e la Febbre Dengue, che appunto manifesta questi effetti. La Dengue è anche causa di miocarditi, sicché anche quest’ultime potrebbero essere state trasferite al Covid… e al v4cc1n0 contro il Covid. Esigerei chiarezza sugli esperimenti di Wuhan, in particolare appunto sull’ibridazione suddetta.

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L’Esperimento Philadelphia

L’Esperimento Philadelphia

Al principio degli anni ’30 del XX secolo, il gotha della fisica mondiale venne riunito all’Università di Princeton, nel New Jersey, per mettere in pratica la teoria di Einstein sul Campo Unificato e realizzare quello che potremmo chiamare un teletrasporto su larga scala.

Un decennio più tardi l’esperimento fu completato con successo: il 12 agosto 1943 il cacciatorpediniere USS Eldridge DE 173 scomparve dal porto di Philadelphia per apparire in quello di Norfolk, 350 km più a sud, tornando poi istantaneamente a Philadelphia 15 minuti più tardi.


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